LA BELLA MORTE? Notazioni sulla presenza dell’estrema destra nel movimento No-Vax

Memento mori di Andrea Previtali (1502), retro del dipinto Ritratto d’uomo
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Premessa.

Questo breve articolo risponde a due domande che mi pongo da tempo.

La prima riguarda i forti richiami del movimento No-vax alla sfida con la morte (“io questo virus, a questo punto, mi auguro di prenderlo, piuttosto che morire strisciando meglio morire in piedi!”), tali da essere assunti come estremo sacrificio personale e simbolico, per alcuni di loro, fino al rifiuto totale di ogni cura. La seconda tocca invece la presenza, viva e attiva, delle destre neofasciste, naziste e nazionaliste nel movimento No-vax europeo in misura largamente maggiore e visibile delle sinistre antagoniste. Credo che tra la prima domanda e la seconda ci sia una forte correlazione.

Preciso che con movimento No-vax intendo esplicitamente solo e soltanto quello che si esprime nelle pubbliche piazze o attraverso variegati contesti comunicativi social. Questo significa che non esiste una correlazione automatica tra non vaccinati e movimento No-vax. Non esiste, allo stesso modo, una complicità necessaria tra tutte le parti del movimento No-vax e l’estrema destra. Allo stesso tempo, in molti casi, non è stabilita né definita una netta separazione. E anche questo pone altre e irrisolte domande.

La bella morte?

Il Covid-19 ha riproposto, in forma nuova ed aggiornata, una pletora di temi su cui sarebbe molto oneroso, anche se doveroso, tornare. Uno di questi è il rapporto con la morte: espulsa dal mercantilismo capitalistico come un accidente della vita, è tornata prepotentemente ad accompagnare la quotidianità delle vite di ognuno di noi non solamente come fattore ineludibile e consustanziale all’esistenza stessa, ma quale coadiutrice indesiderata della quotidianità. Imprevedibile, implacabile e portatrice di sofferenze. Non che non lo sapessimo già, ma non eravamo più abituati ad immaginarla a braccetto di una cena, di una spesa, di una partita di calcetto, di una proiezione cinematografica e così via. Gran parte della discussione che da due anni ad oggi ruota intorno al Covid-19, ai vaccini, alle misure di contenimento ha un nemmeno tanto malcelato convitato di pietra: la morte. Intorno ad essa hanno ballato e danzano posizioni radicalmente divergenti.

Per la prima volta rimango fortemente scosso quando un mio contatto “social”, riferendosi ad altrui intervento pro vaccino, rivendica “una morte con il sole in faccia, da uomini veri e non da sudditi (l’accusa è contro pretoriani di Regime). Non è l’unico, naturalmente: piazze, siti, chat, dichiarazioni private e pubbliche di non vaccinati riprendono slogan militareschi tra cui campeggia il “meglio morire in piedi piuttosto che morire strisciando!”.

Di fronte ad una malattia, solitamente, si usano toni meno bellicosi: il vaccino, piaccia qualcosa di più o molto di meno, è un medicinale. Ma, se si pensa di essere all’interno di una guerra, gli stessi registri linguistici cambiano e cambiano di molto. Per alcuni dei non vaccinati non saremmo dunque solamente davanti ad un virus, nato chissà dove e chissà come, ma dinanzi ad un nemico belligerante dai volti e dalle espressioni più diverse e più stratificate. Solo così e solo in questo senso possono essere capiti, anche se non compresi, motti che inneggiano ad affrontare la morte quasi fosse un vessillo di coerenza assoluta. Perché, ed è qui il paradosso più compiuto, se non ci si vaccina per non morire o per essere infettati da un “siero” (così lo chiamano) sperimentale e nocivo, non ha alcun senso invocare la morte come scelta di congruenza personale e politica per combatterlo. A meno che, a meno che, come dicevo prima, non ci si ritrovi in guerra. Ma di quale guerra parlano costoro? Sia nel caso in cui ritengano il virus cosa vera, sia nel caso in cui lo individuino come pura e mera fantasia, il Covid-19 assolve ad una funzione macro-politica: è quel grimaldello nato, cresciuto, sperimentato e poi diffuso al solo scopo di accelerare il processo di dissoluzione degli stati-nazione, di imporre un governo mondiale eterodiretto da forze finanziare/poteri occulti/multinazionali finalizzati a soggiogare l’intera popolazione mondiale ad un dominio tripartito (finanza, burocrazia/potentati economici) non democratico, volutamente e consciamente dittatoriale. La sanità diventa, secondo questa logica, forma precipua di dittatura proprio perché è strumento essenziale della propagazione delle volontà politiche eterodirette: la “dittatura sanitaria” segue pedissequamente questa logica. Tali posizioni politiche o pre-politiche si confrontano assiduamente e costantemente, che lo facciano o meno consapevolmente, con tutto il substrato culturale delle destre radicali che hanno sempre condannato il potere omologante della mondializzazione come condizione essenziale dell’indebolimento dei popoli, intesi nella loro unitarietà costitutiva, esistenziale, tradizionale e storica: in altre parole ciò che chiamano “comunità di destino”. Per chi conosca anche solo un po’ di vicende umane sa per bene che i processi unitari, non da ultimo quelli nazionali, passano attraverso innumerevoli conflitti e da inevitabili contaminazioni: elementi essenziali della loro formazione sono laceranti lotte di classe e cruente guerre civili. Quello su cui i teorici del complotto mondiale organizzato contano è di riconsegnare un’immagine innocente e perduta dei tempi passati, di mitologiche coesioni sociali, di imperiture e immutabili tradizioni in chiave nazionale volte ad esser calpestate da cocenti bombardieri virali a servizio di sua maestà il Dominio Mondiale.

La critica al sistema capitalistico e alla sua natura predatoria, doverosa, necessaria e quantomai attuale, è ben altra cosa da questi farfugliamenti della cospirazione.

Ma per la destra radicale il virus Covid-19 è niente più e niente meno che un atto di guerra che schiera due formazioni in campo: la servitù di Regime, che si vaccina e i combattenti per libertà, che lottano e muoiono per una causa nobile.

In questo senso libertà, liberazione, dittatura assumono fattezze significativamente diverse da quelli assunte storicamente e socialmente condivise: invocare battaglie contro forme di dittatura e di imposizione sociale, per l’estrema destra illiberale e autoritaria, potrebbe costituire un ulteriore paradosso. Ma si tratta di una bizzarria solo apparente: le dittature non sono intese nelle loro forme di realizzazione storica e sociale e la libertà non ha valore in sé, se non in relazione al contesto politico di riferimento. La diversità non contempla nessuno spazio alla differenza: la presunta unità di popolo non prevede alcuna divisione sostanziale: di classe, di genere, sociali, culturali, di pensiero e storiche. Essa le assimila nel nome di destino comune, il loro naturalmente, e le riconduce da una condivisione di spirito e d’intenti unico, univoco e indiscutibile. Chi si pone al di fuori da questa logica, si colloca al di là della stessa nazione: va o rieducato o espulso. Se le differenze interne sono ricondotte ad un’imprescindibile forzatura unificante, al contrario quelle esterne sono esaltate e fortemente virilizzate. Il virus ha riconsegnato all’estrema destra l’occasione per tornare a parlare di temi a lei cari. E di poterli portare, manco a poterlo solo sperare, in forme di movimento composite. La logica bellica assume, dunque, il duplice connotato di di guerra esterna e di guerra interna: i poteri “forti” mondiali e i loro lacchè locali.

Devastazione di una sede sindacale a Roma – inizi anni Venti

E qui torna prepotentemente la morte eroica come stilema di pensiero complessivo di una guerra da combattere: è sicuramente vero che la morte mitizzata non appartiene esclusivamente alle culture delle destre radicali, ma è indubbio che di questa ne facciano e ne abbiano fatto un vessillo imprescindibile della loro teoria-prassi politica.

Accenni sulla morte eroica e la dottrina fascista.

Sicuramente De Maistre, Gobineau, Donoso Cortés, principalmente Barrés e poi Ernst Jünger e Spengler e la morte quale premio del destino e la diserzione borghese della storia; e quindi il nazionalista radicale Ernst von Salomon (invito a leggere questo pezzo di Cesare Cases a proposito degli eretici conniventi http://www.germanistica.net/2012/06/27/gli-eretici-conniventi/), il quale scriveva che “è meglio rischiare la propria vita che vivere male. Ecco perché la vita vera, pericolosa, deve essere preferita alla vita mediocre, e su questa stessa falsariga la morte gloriosa è meglio di una morte mediocre”, hanno puntellato, anticipato, sedimentato una cultura politica in cui la morte diviene essenza primaria della vita, sua compagna e guida, nazione e spirito dei tempi. La Grande Guerra, in tutto questo, rimane uno spartiacque da cui non si può fuggire né prescindere. Ma è nella costituzione materiale dei movimenti e partiti fascisti e nazisti dagli anni Venti in avanti che la morte gloriosa e mitizzata diventa corpo politico, fine e strumento, misura e principio. L’individuo della destra nazional-rivoluzionaria combatte per sé, anticipando e muovendosi nella direzione dei desiderata di altri individui pari a lui: per la nazione (sangue e suolo) e contro la patria borghese.

Chiare, in questo senso, riecheggiano le parole di José Antonio Primo de Rivera, co-fondatore assieme a Ramiro Ledesma Ramos e Ruiz de Alda della Falange Española Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista (FET y de las JONS): “la morte è un atto di servizio. Né più né meno. Non si possono, pertanto, adottare specifiche attitudini davanti ai caduti. (…) il martirio dei nostri è, per un verso, scuola di sofferenza e di sacrificio, quando abbiamo deciso di contemplarlo in silenzio. Per altro è ragione di rabbia e di giustizia. I nostri martiri non possono certo essere un argomento di ‘protesta’ secondo la consuetudine liberale”.

Il canto del Tercio Estranjero, s’intitola non casualmente “Il fidanzato della morte”, e così recita nel cuore della sua liturgia: “Quando più arduo era il fuoco e la lotta più feroce // difendendo la sua bandiera il legionario avanzò.// E senza temere la spinta del nemico esaltato // Seppe morire come un valoroso e le insegne salvò. // E dissetando col suo sangue il terreno ardente, //mormorò il Legionario con voce triste: // Sono un uomo che la fortuna ha colpito con zampa feroce; //sono un fidanzato della morte che si unirà con nodo forte // a una compagna così fedele”.

Non è da meno la Guardia di Ferro rumena, che rimanda ugualmente allo sposalizio con la morte: “La morte, soltanto la morte, legionari, // è un lieto sposalizio per noi. // I legionari muoiono cantando, // i legionari cantano morendo.”

E il fascismo nostrano con la canzone Fiamme Nere, dedicata all’arditismo bellico (nota anche come Il Canto degli arditi), ripresa all’inizio degli anni venti e poi nella Repubblica Sociale come inno delle Brigate Nere, così inneggia in una delle sue strofe:

avanguardia di morte // siam vessillo di lotte e di orror // siamo l’orgoglio mutato in coorte // per difender d’Italia l’onor”.

Con la Seconda guerra mondiale quest’aura sepolcrale, zeppa di simboli e riferimenti inneggianti al rapporto alla pari con la morte, quasi sfottente, trova il suo apice nella letteratura fascista: “Potrò guardare in faccia alla morte, sfuggirla, divertirmi con essa; giocare a rimpiattino deve essere bello. Come vedi le volontarie in camicia nera non temono la morte e prendono tutto con filosofia. Così viviamo… guardando in faccia alla morte con sorriso sulle labbra”, scrive un’ausiliaria in una lettera.

Lo storico Claudio Pavone afferma che ci sono due poli estremi che si possono isolare nelle espressioni fasciste: il primo riguarda una forma estetica dell’impulso di distruzione, che sembra propria di tutte le esistenze da paria nella misura in cui intimamente non sono del tutto schiave” (cfr. Georg Simmel).

Il secondo è quella della sfida proterva, fino alla morte.

Bibliografia minima.

Francesco Germinario, L’estremo sacrificio e la violenza. Il mito politico della morte nella destra rivoluzionaria del Novecento, Asterios editore, Trieste 2018;

Francesco Germinario, L’altra memoria. L’Esrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999;

Furio Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Mlano 1979;

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Borignhieri, Torino 1991.

Sei labbra e occhi bui. Sei la vigna.

fugazzala foto è di Arianna Fugazza

Anche tu sei collina 

Anche tu sei collina

e sentiero di sassi

e gioco nei canneti,

e conosci la vigna

che di notte tace.

Tu non dici parole.

 

C’è una terra che tace

e non è terra tua.

C’è un silenzio che dura

sulle piante e sui colli.

Ci son acque e campagne.

Sei un chiuso silenzio

che non cede, sei labbra

e occhi bui. Sei la vigna.

 

E’ una terra che attende

e non dice parola.

Sono passati giorni

sotto cieli ardenti.

Tu hai giocato alle nubi.

E’ una terra cattiva –

la tua fronte lo sa.

Anche questo è la vigna.

 

Ritroverai le nubi

e il canneto, e le voci

come un’ombra di luna.

Ritroverai parole

oltre la vita breve

e notturna dei giochi,

oltre l’infanzia accesa.

Sarà dolce tacere.

Sei la terra e la vigna.

Un acceso silenzio

brucerà la campagna

come i falò la sera.

Cesare Pavese  30, 31 ottobre 1945[1]

Per Pavese il luogo mitico è il nome comune[2], universale, il prato, la terra, la vigna, la collina…: è l’archetipo primordiale di cui ognuno possiede il riflesso. I ricordi, con cui si battezzano le cose, sono la memoria del simbolo e del mito. Il mito, per sua natura, è sempre simbolico: «non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture[3].» Il mito, come atto estatico  che corrisponde al simbolo diviene puro atto di libertà: esso può apparire alle soglie dell’esperienza infantile ed è specifico di quei paesaggi dell’infanzia. «In Pavese quella necessità di ricondurre ogni nuova esperienza ai prototipi mitici infantili sembra(…) un atto sempre rinnovato  di devozione verso la morte, che sta appunto sul liminare delle esperienze infantili (…) e che attraverso i simboli primordiali le permea tutte[4].» Assieme alla dottrina del simbolo e all’estasi come sacramento giunge a Pavese l’idea che l’infanzia sia uno stadio di conoscenza prima, tempo di esperienze fondamentali e uniche, fonte del sapere primario che si rivela disponibile solo parzialmente come ritorno della memoria. Il fanciullo partecipa a quei modelli primordiali perché è più vicino all’Aldilà.

Nell’impossibilità di quel ritorno, di  riafferrare il tempo sacro della festa, la sazietà delle parole non può che essere vana, quando la rabbia scopre la possibilità di “non essere più io”, di non poter più partecipare all’archetipo primordiale, al farsi campo, cielo, bosco: «Talvolta se mi accosto a questa terra, ne ho un urto impetuoso che mi rapisce come un’acqua in piena e vuol sommergermi. Una voce, un odore bastano a prendermi e buttarmi chi sa dove. Son fatto pietra, umidità, letame, succo di frutto, vento. Del limite umano non mi resta che l’istinto di rapprendermi in parole, ma queste non sono più nulla e mi dibatto come un albero o una belva già stata uomo e ora incapace di esprimermi. Cedo, riluttando perché so che la mia natura è un’altra, e ogni volta trovo in fondo a questo impeto una vana sazietà. […] Io parlo qui di tentazione attuale. Fermo davanti a una campagna, smemorato, a un cielo chiaro, a un corso d’acqua, a un bosco, mi sorprende la rabbia improvvisa di non esser più io, di farmi quel campo, quel cielo, quel bosco, di cercar la parola che lo traduca tutto quanto, fino ai fili dell’erba, fino al sentore, fino al vuoto. Io non esisto; esiste il campo, esiste il cielo. Esistono i miei sensi, spalancati come bocche a divorare l’oggetto[5].»

[1] Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino 1951

[2] Cfr. i tre saggi dedicati a Cesare Pavese in Furio Jesi, Letteratura e mito, Einaudi , Torino 2002

[3] Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1953, pag. 301

[4]  Furio Jesi, Pavese, il mito e la scienza del mito, in Furio Jesi, Letteratura e mito, cit.  pag. 144

[5] Cesare Pavese, Feria d’agosto, Einaudi, Torino, 1946, p. 235

Arthur Rimbaud, il vino

rimbaud2

“Un tempo, se ricordo bene,

la mia vita era un banchetto in cui tutti i cuori s’aprivano,

in cui tutti i vini scorrevano”.

Arthur Rimbaud, Una stagione allinferno (Une saison en enfer)

Al cinema: Jeune et jolie, Giovane e bella in italiano. La narrazione lineare del film, a un cero punto, viene sospesa e irrompe, con il volto di alcuni personaggi che si rivolgono direttamente al pubblico come in una pièce teatrale, la poesia di Rimbaud: Roman (Romanzo). Un tempo sospeso di forte emotività che si accentua durante la recitazione e che si conclude, con le lacrime agli occhi della protagonista, Marine Vacth, nell’ultima strofa.

La poesia, per intero:

                                             I

 

   Non si può essere seri a diciassette anni.

   – Una sera al diavolo birra e limonate

   E i chiassosi caffè dalle luci splendenti!

   – Te ne vai sotto i verdi tigli del viale.

 

   Come profumano i tigli nelle serate di giugno!

   L’aria talvolta è così dolce che chiudi gli occhi;

   Il vento è pieno di suoni, – la città non lontana, –

   E profuma di vigna e di birra…

 

                                             II

 

   – Ed ecco che si scorge un piccolo brandello

   D’azzurro scuro, incorniciato da un piccolo ramo,

   Punteggiato da una cattiva stella, che si fonde

   Con dolci brividi, piccola e tutta bianca…

 

   Notte di giugno! Diciassette anni! – Ti lasci inebriare.

   La linfa è uno champagne che ti sale alla testa…

   Si vaneggia; e ti senti alle labbra un bacio

   Che palpita come una bestiolina…

 

                                         III

 

Il cuore, folle Robinson nei romanzi,

– Quando, nel chiarore di un pallido fanale,

Passa una signorina dall’aria incantevole,

All’ombra del terrificante colletto paterno…

 

E siccome ti trova immensamente ingenuo

Trotterellando nei suoi stivaletti,

Si volta, lesta, con movimento vivace…

– E sulle tue labbra muoiono le cavatine

 

                                         IV

 

E sei innamorato. Preso fino al mese d’agosto.

Sei innamorato. – I tuoi sonetti La fan ridere.

Gli amici se ne vanno. Sei di pessimo gusto.

– Poi l’adorata una sera si è degnata di scrivere…!

 

Quella sera,… – torni ai caffè splendenti,

Ordini birra o limonata…

– Non si può essere seri a diciassette anni

Quando i tigli sono verdi lungo il viale.

I

On n’est pas sérieux, quand on a dix-sept ans.
– Un beau soir, foin des bocks et de la limonade,
Des cafés tapageurs aux lustres éclatants !
– On va sous les tilleuls verts de la promenade.

Les tilleuls sentent bon dans les bons soirs de juin !
L’air est parfois si doux, qu’on ferme la paupière ;
Le vent chargé de bruits – la ville n’est pas loin –
A des parfums de vigne et des parfums de bière….

II

– Voilà qu’on aperçoit un tout petit chiffon
D’azur sombre, encadré d’une petite branche,
Piqué d’une mauvaise étoile, qui se fond
Avec de doux frissons, petite et toute blanche…

Nuit de juin ! Dix-sept ans ! – On se laisse griser.
La sève est du champagne et vous monte à la tête…
On divague ; on se sent aux lèvres un baiser
Qui palpite là, comme une petite bête….

III

Le coeur fou Robinsonne à travers les romans,
Lorsque, dans la clarté d’un pâle réverbère,
Passe une demoiselle aux petits airs charmants,
Sous l’ombre du faux col effrayant de son père…

Et, comme elle vous trouve immensément naïf,
Tout en faisant trotter ses petites bottines,
Elle se tourne, alerte et d’un mouvement vif….
– Sur vos lèvres alors meurent les cavatines…

IV

Vous êtes amoureux. Loué jusqu’au mois d’août.
Vous êtes amoureux. – Vos sonnets La font rire.
Tous vos amis s’en vont, vous êtes mauvais goût.
– Puis l’adorée, un soir, a daigné vous écrire…!

– Ce soir-là,… – vous rentrez aux cafés éclatants,
Vous demandez des bocks ou de la limonade..
– On n’est pas sérieux, quand on a dix-sept ans
Et qu’on a des tilleuls verts sur la promenade.

29 sept. 70    Arthur Rimbaud

Il vino, la vigna tornano in alcune poesie di Rimbaud sotto forma di metafora sinestetica, che consiste nell’associare in un’unica immagine due parole o due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse: la città non lontana che profuma di vigna e di birra; o ancora la linfa è uno champagne che ti sale alla testa…

Un mese più avanti, nell’ottobre del 1870, Le buffet (La credenza):

È un’ampia credenza scolpita; la quercia scura,

Molto antica, ha preso l’aspetto bonario dei vecchi;

La credenza è aperta, e versa nella sua ombra

Come un fiotto di vecchio vino, profumi allettanti; …

E poi, ancora, in Vagabonds (Vagabondi – 1872), poema in cui viene rievocata la relazione con Paul Verlaine, sugli antichi ed erranti viaggiatori, ebbri soltanto della propria ascesi (il vino delle caverne):

Avevo infatti, con assoluta sincerità di spirito, assunto l’impegno di restituirlo alla sua condizione primitiva di figlio del Sole – ed erravamo, nutriti del vino delle caverne e del biscotto della strada, io ansioso di trovare il luogo e la formula.

Sono i vini azzurri lavati dall’acqua verde che penetra nello scafo, il bateau ebbro che «acquista libertà dagli uomini e che tenta l’esperienza di un regno in cui libertà è purificazione, veggenza, morte[1]


[1] Furio Jesi, Lettura del “Bateau ivre” di Rimbaud, Quodlibet, Macerata 1996, pag. 18

Il linguaggio delle “idee senza parole”. Dietro la “Lega” e oltre

Tradizione, Terra, Origine, Storia, Buonsenso, Comunità, naturalmente maiuscolizzate, sono parole-simbolo che, forti di un substrato mitico, presumono un retaggio di verità esoteriche. Le idee sottostanti hanno uno scheletro morfologico e sintattico che ha un rapporto con queste parole fatto di relazioni precarie, temporanee e approssimative. Dicono e nello stesso tempo celano nella sfera segreta del simbolo: le proposizioni caratterizzate da stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti impiegano sintagmi e pochi vocaboli: “il linguaggio delle idee senza parole presume di poter dire veramente, dunque dire e insieme celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d’ordine” (Furio Jesi, Cultura di destra. Il linguaggio delle “idee senza parole”, Garzanti, Milano 1993). Il “tanti nemici, tanto onore!” di lontana memoria. Sono i miti e i riti che il parlante ha in comune con l’ascoltatore: “Voglio fare prima con voi un giuramento – dice Salvini in chiusura del comizio a Milano – mi impegno e giuro di essere fedele al mio popolo, ai sessanta milioni di italiani, di servirvi con onestà e con coraggio. Giuro di applicare davvero quanto previsto dalla Costituzione italiana da alcuni ignorata e giuro di farlo rispettando gli insegnamenti contenuti in questo sacro Vangelo. Io lo giuro. Lo giurate assieme a me? Andiamo a governare, riprendiamoci questo Paese” (Fonte “il Giorno” del 24 febbraio 2018).

La radicalità del discorso leghista passa sia dalle enunciazioni mitopoietiche sia dai necessari e conseguenti riti liturgici volti a creare una comunità solidale di appartenenza. La separazione dall’altro procede attraverso la riformulazione continua del primato etnico recuperando, di fatto, il concetto di “razza” sotto mentite spoglie culturali: “Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate” (Attilio Fontana candidato della Lega Nord alle regionali lombarde. Fonte “Il Giornale” del 16/01/2018). Ogni società nasce ai propri occhi nel momento in cui si dà la narrazione della sua violenza –  afferma J. P. Faye (“Violenza”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1981): la narrazione agisce e cambia l’azione stessa mentre la racconta. Per tale motivo, cambiando ciò che essa racconta, essa cambia se stessa raccontando. La narrazione come oggetto che cambia e che cambia il suo oggetto. Ecco il primo assioma, o la serie assiomatica da cui si dovrà partire: “Bisogna salvare chiunque in mezzo al mare, ma poi riportarlo indietro. Bisogna scaricarli sulle spiagge, con una bella pacca sulla spalla, un sacchetto di noccioline e un gelato”. (Salvini, fonte Il Giornale del 12/01/2017)

Invasione, sostituzione e animalizzazione. Ci si chiede perché possa rivelarsi al pubblico e in pubblico, senza alcun ignominia personale, gente che esulta per la morte di persone, bambini compresi, annegati nel Mediterraneo o che alcuni si compiacciano, mostrando l’orrida lingua e il raccapricciante volto in pubblico, per il ferimento mortale di una neonata rom in braccio a sua madre. La ragione è presto detta: l’animalizzazione dell’altro, ovvero la sottrazione del nemico immaginato al proprio genere, quello umano, e la sua conseguente bestializzazione fisica, psichica e morale. (Francesco Germinario, Argomenti per lo sterminio. L’antisemitismo e i suoi stereotipi nella cultura europea (1850 – 1920), Einaudi, Torino 2011) La storia è piena di metafore zoomorfe: l’alterità irriducibile a sé permettere di derubricare ogni comportamento criminale rivolto ad un essere umano paradigmatico, indistinto e appartenente ad una genia disumanizzata e perciò stessa animalizzata. Prima tocca ai meridionali, poi ai migranti, dunque agli zingari e infine a tutti coloro che non rientrano nei codici stereotipati dei valori integrati ed integrali dell’uomo occidentale bianco, apparentemente monogamo, sicuramente eterosessuale, tanto riproduttivo quanto produttivo, possibilmente benestante: “Quando saremo al governo polizia e carabinieri avranno mano libera per ripulire le città. La nostra sarà una pulizia etnica controllata e finanziata, la stessa che stanno subendo gli italiani, oppressi dai clandestini” (Salvini, agosto 2016, al comizio di Ferragosto a Ponte di Legno. Fonte panorama.it). In questo senso anche un cristianesimo astratto, la cui necessità ed esistenza serve solo a garantire la costruzione del modello fondativo italico-padano e dei i suoi naturali disposti valoriali funziona come “il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serva a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna, e che poi talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri lo stesso stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi anche il sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella innanzitutto di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un ‘eterno presente’”. (F. Jesi, Scienza del mito e critica letteraria in ID., Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, D’Anna, Messina-Firenze 1976)

La posizione e il campo di appartenenza valgono in sé e per sé come qualificazione di presunta veridicità: ciò che si afferma sfugge, infine, ad ogni ipotesi di verificabilità proprio nella misura in cui ogni assioma contiene in sé verità non solo non dimostrabili, ma a cui non avrebbe alcun senso domandare una qualsivoglia attendibilità. Ponendosi come verità illimitate, piene ed inequivocabili, le  ricadute di quei paradigmi assoluti possono tenere a sé il falso. Un  falso che non può in alcun modo prestarsi ad essere confutato. Il proliferare di notizie mendaci credute come veritiere fa parte di questo processo di posizionamento e di incorporazione. In questo senso a nulla valgono le smentite di forma e di sostanza: non tanto perché in assoluto non valevoli, ma perché non aderenti al campo “giusto”.

Il mito è dunque un valore che non ha per sanzione la verità: “niente gli impedisce di essere un alibi perpetuo: gli è sufficiente che il significante abbia due facce per avere sempre a disposizione un altrove: il senso è sempre pronto a presentare la forma; la forma è sempre pronta a distanziare il senso. E non c’è mai contraddizione, conflitto, deflagrazione tra il senso e la forma: essi non si trovano mai nel medesimo punto. Allo stesso modo, se sono in automobile e guardo il paesaggio attraverso il vetro, posso puntare a piacere sul paesaggio o sul vetro: ora percepirò la presenza del vetro e la distanza dal paesaggio; ora al contrario la trasparenza del vetro e la profondità del paesaggio. Ma il risultato di questa alternanza sarà costante, il vetro mi sarà contemporaneamente presente e vuoto, il paesaggio mi sarà contemporaneamente irreale e pieno. Lo stesso nel significante mitico: la forma è vuota ma presente, il senso è assente e tuttavia pieno. (R. Barthes, Mythologie, Éditions du Seuil, Paris 1957 in ID. Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994).

La stessa distanza si crea tra simboli esibiti, siano essi crocifissi, rosari, marchi di abbigliamento come stilemi d’appartenenza ad una vasta area della destra radicale, bracciali di stretta osservanza e di reciproco riconoscimento ultras… e l’enigma che, nascondendo in sé la sua regola costitutiva, non offre la possibilità che il suo significato sia compreso: “Oggetto del simbolismo è l’aumento dell’importanza di ciò che è simbolizzato” (Whitehead, Simbolismo, in Gennaro Sasso, Allegoria e simbolo, Aragno, Torino 2014)

Serrare tra le dita della mano un Cristo penzolante abbarbicato all’altalena di un rosario non conduce verso la comprensione di una attendibilità storica di amor caritatevole, a fondamento della società  preconizzata, ma allarga lo iato tra immagine esibita e il contenuto di verità presunta. E questo iato non è altro che una religio mortis.

Foto tratta da wikipedia common

Luoghi comuni sul vino. Vino e salute, ad esempio.

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C’è un’abitudine inveterata nel mondo discorsivo sul vino, ma potrebbe riguardare tutti i campi dello scibile, per cui si taccia di ‘luogo comune’ un’opinione espressa da altrui parere. Oppure, diversamente, si risponde a ‘luogo comune’ con simmetrico ‘luogo comune’. Luogo comune ha, in entrambe le accezioni, il significato di banalizzazione menzognera grazie al riciclo di falsità o di verità parziali comunemente prodotte in ambito non specialistico. Il sapere specialistico, al contrario, si baserebbe su predicati verbali di indubbia e comprovata scientificità o di quantomeno corroborata documentazione. Vorrei qui invece sottolineare come spesso il confine tra i saperi sia invece molto più confuso e come le invalicabili certezze scientifiche siano produttrici, a volte sulla base del committente politico ed economico a cui rispondono, di luoghi comuni altrettanto pericolosi. Questo non significa ricostruire una sorta di parificazione astratta tra forme di sapere e conoscenza assai diverse e per metodo e per contenuto: vuol dire, invece, riportare ogni forma del sapere, anche nelle sue pratiche procedurali, alla sua sostanza non mitizzata.
I luoghi comuni e le rappresentazioni che da essi derivano hanno, dunque, la forza di costituirsi come ambiente nel quale siamo immersi attraverso due processi: di ancoraggio e di oggettivazione. Nessuna rappresentazione che sia tale nasce dal nulla, ma trae origine da altre rappresentazioni. Come già sostenuto da Schutz: «se nelle nostre esperienze ci imbattiamo in qualcosa di precedentemente sconosciuto (…) diamo inizio ad un processo di analisi. Dapprima definiamo il nuovo fatto; cerchiamo di afferrare il suo significato; trasformiamo poi gradatamente il nostro schema generale di interpretazione del mondo in modo tale che il fatto strano e il suo significato si facciano compatibili e coerenti con tutti gli altri fatti della nostra esperienza e con i loro significati [1].»
Nel primo artefatto linguistico il problema è bello che risolto: si accusa l’altro (gli altri) di argomentare pro domo: si usa il luogo comune per ancorare il proprio discorso ad una verità più ampia, che quasi sempre coincide con l’altra domo, ovvero la propria: “E’ luogo comune pensare che soltanto gli enologi possano essere i migliori valutatori di un vino.” Ne consegue che “i migliori valutatori di un vino possono essere….”. Spesso le frasi cominciano, a tal proposito, con “Non dico che…”, per poi sopraggiungere ad un “ma” che nega interamente il costrutto precedente.
Il secondo caso è più complicato, perché s affrontano luoghi comuni che, hanno un contenuto di verità assai variabile: “la sostanza di luogo comune sta difatti non nel loro contenuto di verità, che può essere basso o inesistente (come nel caso dei cliché razzisti, ad esempio) ovvero alto e altissimo (cfr ‘i migliori bianchi del mondo sono tedeschi’), bensì nella loro ripetitività quale mantra salvifico ripetuto dalle genti[2].”
Uno degli argomenti più dibattuti dal punto di vista scientifico, dove per scientifico intendo la scienza come processo lineare che utilizza una: a) formulazione delle ipotesi; b) definizione del metodo di lavoro; c) raccolta dati; d) elaborazione dati raccolti; e) verifica ipotesi; f) comunicazione risultato, è quello del rapporto tra vino e salute, e non, ma non a caso, tra alcol e salute.
Credo che farebbe sorridere a molti un convegno su “grappa e salute”, e non tanto perché il contenuto alcolico della grappa sia piuttosto elevato, quanto per l’immagine sociale (da cui il luogo comune), comunemente e storicamente condivisa, del prodotto derivato dalla distillazione delle vinacce. Ma c’è di più: il vino non solo è un simbolo nazionale, come la pizza, la pasta e via cantando, ma è stato anche il prodotto più importante della farmacopea occidentale per almeno 1500 anni. La dietetica, la maggiore delle discipline mediche secondo la tradizione ippocratico – galenica, contemplava il vino (cotto, freddo, da solo o con altre sostante erbacee) come mezzo curativo di un numero infinito di disturbi e malattie.
Il dibattito a cui assistiamo oggi, il proliferare di pubblicazioni e di società in difesa del vino, o contro di esso, viene sostenuto e costruito da teoremi, prove, misurazioni che hanno il compito di suffragare l’ipotesi di partenza, ovverossia l’assunto assiomatico. Ma se l’evidenza scientifica dovesse dire altro, sia i favorevoli che i contrari dovrebbero prenderne atto e mettere quantomeno in discussione il postulato che, come tale invece, non viene in alcun modo dibattuto. Ecco perciò che i luoghi comuni, i quali si formano dal sostegno di postulati apparentemente scientifici, hanno una loro forza divulgativa assai maggiore di quelli popolari, ma non per questo possono essere meno pericolosi dei primi. Si potrebbe replicare con le parole usate Barry Barnes, in uno studio su Kuhn, quando dice: «benché gli scienziati presumano spesso che i loro concetti e teorie in qualche senso si applichino già a tutti gli aspetti della natura, quel che essi fanno realmente nel corso della ricerca normale è ordinare i fenomeni sotto determinati concetti, caso per caso. È l’attività della scienza normale che dà significato ai concetti, non il significato intrinseco dei concetti che ne determina l’attività[3].» Da ciò si può affermare che «molte delle tesi avanzate per distinguere la scienza dalla pseudo-scienza sono in realtà costruzioni a posteriori formulate per giustificare il già avvenuto rigetto di determinate ipotesi scientifiche. Se fossero applicate ex ante per determinare il valore di ipotesi ancora in discussione porterebbero molto probabilmente, come suggerisce Feyerabend, alla scomparsa della scienza come la conosciamo oggi[4].»
Se ciò corrisponde al vero, possiamo concordare sul fatto che il luogo comune, che deriva da un senso comune diffuso“non è l’autore del suo presunto discorso; non è ciò per cui si presenta o viene spacciato. Esso è propriamente il termine di un’operazione strategica perseguita dal sapere propriamente detto (…) Nelle vicende delle sue certezze così come in quelle delle sue illusioni, il senso comune ha dietro di sé la committenza di un sapere che non è né comune, né popolare. Scopriamo che ciò che va sotto il nome di senso comune è una funzione delegata dal pensiero scientifico-filosofico in corso; che esso è inserito entro un immane reticolo dove parti del sapere si strutturano con altre parti, con altri frammenti di scienza[5].” Ed è proprio questa tradizione filosofico-scientifica che consegna un repertorio di certezze e di verità come erede di una tradizione mitologica che si realizza al di fuori dei processi stessi della metodologia della scienza. Il mito è, infine, ciò che Furio Jesi definisce come “una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serve a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi è anche sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella, innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un eterno ‘presente’[6].”

Dunque bevo vino per diverse ragioni: ho qualche dubbio che mi faccia bene. Dipende dal bene.

 
[1] Alfred Schutz, Saggi sociologici, Utet, Torino 1979 (ed. orig. 1973), pag. 389
[2] Rizzo Fabiari, 24 maggio 2012 alle 08:18 in risposta a Rossano Ferrazzano su http://accademiadeglialterati.com/2012/05/28/elenco-provvisorio-di-luoghi-comuni-del-vino-lista-in-aggiornamento/
[3] Barry Barnes, T.S. Kuhn: la dimensione sociale della scienza citato in Luca Guzzetti, La frode scientifica. Normatività e devianza nella scienza, Liguori Editore, Napoli 2002, pag. 18
[4] Ivi pag. 197
[5] Aldo Gargani, Scienza, filosofia e senso comune in Ludwig Wittgestein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Einaudi, Torino 1999, pag. XXVIII
[6] Furio Jesi, L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo. Morcelliana, Brescia 1993, pag. 101

 

 

Fiere vinicole: il tempo della festa.

In un bellissimo saggio intitolato “La conoscibilità della festa” (1972), ripubblicato ora da ‘Nottetempo’[1], Furio Jesi affronta il tema della festa e del nostro rapporto con il senso della festa e della festività: la sua conclusione è tragica e inappellabile e si rivolge contro coloro che, al tempo presente, continuano a ballare non solo avendo perso l’udito, ma anche in assenza oggettiva della musica. Ma non è su questo che voglio soffermarmi: ad un certo punto del suo saggio Jesi cita Elias Canetti de “Le masse e il potere[2]” di cui lui stesso è il primo traduttore in Italia. Il riferimento testuale a Canetti, al capitolo sulle ‘masse festive’ è perché l’autore propone l’incontro tra due modelli gnoseologici della festa: quello dell’azione festiva e quello del tempo festivo. L’azione festiva, rimandando a Veblen, è «un determinato comportamento che rientra nelle categorie dell’ ‘ostentazione ingenua’ e dello ‘spreco vistoso’[3].» E’ il comportamento della classe borghese; è la festa immobile della classe agiata contro il tempo stesso, perché immobile deve essere il secolo ad essa dedicato. Il tempo festivo, invece, rinvia inevitabilmente a Walter Benjamin e alla rottura del continuum storico: è il tempo del calendario, della memoria storica contro il tempo borghese dell’orologio. Sono le classi rivoluzionarie che, rompendo l’ordine costituito, introducono un nuovo calendario come quando, nella Rivoluzione di Luglio, in molti luoghi di Parigi si spara contro gli orologi delle torri. Furio Jesi sostiene che nella contrapposizione dei due modelli festivi c’è la stessa antitesi che si pone tra la negazione di ogni qualità collettiva delle feste considerate (azione festiva) e la collettività e l’autoaffermazione nell’esperienza festiva considerata (tempo festivo). Punto di incontro tra questi due modelli gnoseologici, ma anche dell’io e dello sguardo dell’etnologo è per Jesi l’antropologia simbolica di Elias Canetti: «In uno spazio limitato c’è moltissimo, e i molti che si muovono entro quell’area possono tutti parteciparvi. Il rendimento di qualsiasi coltura o allevamento viene offerto alla vista in grandi mucchi. (…) C’è più di quanto tutti insieme potrebbero consumare e allo scopo di consumarlo affluiscono sempre più persone. (…) Nulla e nessuno li minaccia, nulla li mette in fuga; vita e piacere sono assicurati durante la festa. Molti divieti e molte separazioni sono state aboliti, accostamenti del tutto inconsueti vengono consentiti e favoriti. L’atmosfera per il singolo è di rilassamento e non di scarica. Non c’è una meta comune a tutti, che tutti insieme dovrebbero raggiungere. La festa è la meta, ed essa è stata raggiunta[4]

Si potrebbe obiettare che una fiera vinicola non è una festa, almeno non in senso tradizionale, perché lì c’è gente che lavora: mi chiedo però se esiste una festa in cui non ci sia qualcuno che lavora. Ma poi oltre a questo, bisognerebbe chiedersi ancora perché il tempo del capitalismo presente chiede di metter in produzione la festa e di rendere festiva la produzione: «Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio-merce. ‘L’Europa si è mossa per vedere delle merci’, dice Taine nel 1855 […] Le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio delle merci, creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza della merce. Egli si abbandona alle sue manipolazioni, godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri […] La moda prescrive il rituale secondo cui va adoperato il feticcio della merce […] Essa è in conflitto con l’organico, accoppia il mondo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che soggiace al sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo mette al proprio servizio[5]


[1] Furio Jesi, Il tempo della festa, nottetempo, Roma 2013

[2] Elias Canetti, Massa e potere, trad. it. Furio Jesi, Rizzoli, Milano 1972

[3] Furio Jesi, Il tempo della festa cit. pag. 93

[4] Elias Canetti citato in Furio Jesi, Il tempo della festa cit. pag. 97

[5] Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I ‘passages’  di Parigi, Einaudi, Torino 1986, pp. 10, 11

 

Il mito e la scienza al servizio di un concetto: il terroir. Alcuni spunti critici.

Il terroir gode delle rappresentazioni dei nuovi miti sul vino e della loro declinazione politica in termini identitari. Più forti sono stati i richiami degli ultimi anni contro la globalizzazione capitalistica, maggiormente il cibo, le colture, le piante e la terra in quanto tali sono assurti ad emblema di resistenza contro un modello espropriativo e omologante. Potrebbe essere utile continuare sulla fertile strada intrapresa da Furio Jesi quando sostiene la ‘metamorfosi disciplinare[1]‘ del mito e la sua funzione normativa: “Tutto questo è per me oggi il significato della parola mito. Una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serve a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi è anche sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella, innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un eterno ‘presente’[2].” Il mito ‘tecnicizzato’ si sostanzia in azione e diviene per Jesi interpretazione mistica e fraudolenta della storia: “lo scopo della moderna scienza del mito o della mitologia, lo scopo dei mitologi moderni è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole. Il colore della vita non è una prerogativa molto frequente di ciò che è vivo[3].” Se non possiamo analizzare il terroir nella sua pienezza reale, quali proprietà analizzare al fine di esplicitare il nostro concetto? Per me due essenzialmente: la ‘zonazione viticola’ e la ‘mineralità’ di un vino. Il primo termine rimanda ad uno studio integrato e interdisciplinare che mira, mediante una complessa analisi geopedologica, climatologica e agroviticola, a suddividere il territorio in funzione della vocazionalità alla coltivazione della vite. Si tratta insomma di un processo di analisi particellare dove terreno superficiale e profondo, esposizione, cielo, clima, pianta superficiale sotterranea e lavoro umano vengo dissezionati al fine di comprendere la vocazionalità e l’adattabilità della vitis vinifera ad un terreno. E’ il ritorno, in grande stile, della ragione cartografica, ovvero l’immagine della forma naturale delle cose, del suo valore d’uso, già predisposta per la trasformazione in merce, in valore: “Volgendo in termini marxiani, e finalmente cogliendo l’analogia tra la rappresentazione cartografica e il mercato, che è la sua messa in opera: la forma naturale diventa forma di valore, e la merce stessa rivela una forma fenomenica differente dalla prima, soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce. L’identica sorte accade di norme alle cose su una mappa, dove esse convivono nella loro differenza, l’una accanto all’altra, e allo stesso tempo sono sottomesse a un medesimo e comune regime costrittivo che le assimila. Una merce ottiene espressione di valore soltanto perché simultaneamente tutte le altre merci esprimono il proprio valore nel medesimo equivalente, cioè nella merce equivalente esclusa dal mondo delle merci raffigurato sulla mappa, l’agenzia produttrice della forma generale di valore. Questo equivalente generale è lo spazio, nel senso tolemaico, nel senso tolemaico di intervallo lineare standard tra due punti geometrici, rispetto al quale ogni valore d’uso, cioè ogni luogo, è destinato a sparire. (…) In altre parole: spazio e denaro sono la stessa cosa, nel senso che il simbolo cartografico e la moneta funzionano, il primo sulla mappa e la seconda sul mercato, esattamente allo stesso modo[4].” E dietro di essi, ma anche sopra, di fianco e sotto: la competizione economica locale e internazionale. Il riconoscimento dell’origine di un vino come elemento non esportabile, di valore in sé, ma anche e soprattutto di valore di scambio: “Una volta che sia scambiabile, una cosa si trasforma nel sogno o nell’incubo di se stessa e va a costituire, insieme ad un’infinità di consorelle, una dimensione oggettiva, che è insieme reale (perché esiste), immaginaria (perché esiste per noi grazie al suo packaging pubblicitario) e simbolica (ci offre gran parte dei simboli con cui crediamo di dar senso alla nostra vita): un mondo oggettivo, benché fatto di immagini, e in quanto tale auto-sufficiente[5].” La battaglia che si sta’ delineando su scala planetaria non è soltanto tra chi è pro o contro il terroir: gran parte delle posizioni infatti, egualmente, concorrono a rimarcare l’efficacia rappresentativa del concetto: ma diversamente gli uni, quelli del Nuovo Mondo tanto per capirci, privi di retaggio storico sufficientemente dilatato, puntano ad una visione puramente operativa del concetto di terroir: esso diviene la dimostrazione scientifica che ovunque, a determinate condizioni, è possibile produrre vini di ‘territorio’. All’estremo di questa posizione vi è chi, come l’Associazione geologica Americana, nella costruzione di un’insolita equivalenza cerca di traslare dal terreno all’analisi sensoriale un’improbabile presenza di minerali percepibili nel vino, tenta di distruggere l’idea di un terroir materia (terra) e quindi di un territorio.  Per gli altri, quelli del Vecchio Mondo (Francia e Italia in testa) è solo il terroir storicizzato che detiene il potere di conferire al vino un’irripetibilità e unicità inimitabili. Ed è qui che la mineralità di un vino gioca alcune delle sue carte, o presunte tali, nel conflitto internazionale. Ma anche per quest’ultimi il paradosso della storicità viene risolto in una sorta di fermo-immagine: è come se il rapporto con il passato si fosse risolto una volta per tutte, incarnato in una ‘Tradizione’ che nel momento stesso in cui viene interpellata, si rinnova automaticamente e con essa la propria, presunta, veridicità. Se c’è un mondo che ricorre incessantemente al proprio passato, questo è quello del vino: non c’è soggetto attivo che non produca documentazione sul passato, sulla tradizione, sulla memoria storica dei luoghi e delle pratiche. Questa patina, spesso luccicante quanto artificiale, è costruita ad uso e consumo del presente, o meglio ne è una costante e consumata dilatazione. La vittoria di uno o dell’altro campo significherà la ridefinizione del potere produttivo e commerciale degli imprenditori del vino. La scienza, in questo caso meno che mai neutrale, lavora per uno o per l’altro campo: ma la sua espressione apparentemente neutrale e oggettiva servirà da grimaldello nei confronti di coloro che lavorano per la ‘neutralizzaione’ del terroir storico e per l’affermazione di un terroir dimostrabile, verificabile e produttivamente ineccepibile. 

[1]     Cfr. David Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi, pp. 93 -128 in Furio Jesi, L’accusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo. Morcelliana, Brescia 1993.

[2]     Ibidem, pag. 101

[3]     Furio Jesi, Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina l’animale di un Bestiario, in Furio Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino 2001 pag 176

[4]     Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009, pp. 28, 29

[5]     Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2006, pag. 143