La storia dei tre arzilli dolcetto che dormivano educatamente nella loro bottiglia (con possibili varianti)

Farigliano – Tanaro d’inverno Di Luigi.tuby – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18345596

Ho preso questo racconto breve di Raymond Queneau e l’ho rimodellato a mio piacimento Questo testo venne presentato all’83a riunione di lavoro dell’Opificio di letteratura potenziale (Oulipo) e si ispira alle istruzioni destinate agli ordinatori oppure all’insegnamento programmato. Il racconto originale si trova in «Les Lettres Nouvelles», luglio-settembre 1967, oppure in Raymond Queneau, Segni, cifre, lettere e altri saggi, Einaudi, Torino 1981

  1. Volete conoscere la storia dei tre arzilli dolcetto?

Se sì, passate al n. 4.

Se no, passate al n. 2.

  1. Preferite quella dei tre grignolino smilzi?

Se sì, passate al n. 16.

Se no, passate al n. 3.

  1. Preferite quella dei tre piccoli pignoletto?

Se sì, passate al n. 17.

Se no, passate al n. 21.

  1. C’erano una volta tre dolcetto vestiti di rosso rubino che dormivano educatamente nella loro bottiglia. Il loro viso rotondo e tannico respirava dai buchi del sughero e si sentiva il loro russare dolce e armonioso.

Se preferite un’altra descrizione, passate al n. 9.

Se vi va bene questa, passate al n. 3.

  1. Non sognavano. In realtà queste creature non sognano mai.

Se preferite che sognino, passate al n. 6.

Se no, passate al n. 7.

  1. Sognavano. In realtà queste creature sognano sempre e le loro notti sprigionano sogni affascinanti.

Se desiderate conoscere questi sogni, passate al n. 11.

Se non ci tenete, passate al n. 7.

  1. I loro piedini affondavano in caldi monosaccaridi esosi e portavano a letto guanti di fenoli rossi.

Se preferite guanti di colore diverso, passate al n. 8.

Se vi va bene questo colore, passate al n. 10.

  1. Portavano a letto guanti di antociani ossidati di colore rosso aranciato.

Se preferite guanti di colore diverso, passate al n. 7.

Se questo colore vi va bene, passate al n. 10.

  1. C’erano una volta tre dolcetto che giravano il mondo rotolando sulle strade maestre. Venuta la sera, stanchi morti, si addormentarono molto rapidamente.

Se volete conoscere la continuazione, passate al n. 3.

Se no, passate al n. 21.

  1. Facevano e tutti e tre lo stesso sogno; infatti si amavano teneramente e, da buoni e baldi trimelli, sognavano sempre allo stesso modo.

Se volete conoscere il loro sogno, passate al n. 11.

Se no, passate al n. 12.

  1. Sognavano di andare a prendere i solfiti alla cantina sociale e di scoprire, aprendo i sacchetti, che si trattava di solforosa caducata. Inorriditi si svegliano.

Se volete sapere perché si svegliano inorriditi, consultate la Treccani alla parola «caduco» e non parliamone più.

Se giudicate inutile approfondire la questione, passate al n. 12.

  1. Poffarbacco! esclamano aprendo gli occhi. Poffarbacco! che sogno abbiamo partorito ! Brutto presagio, dice il primo. Certo, dice il secondo, è proprio vero, eccomi triste. Non turbatevi cosi, dice il terzo che era il più furbo, non bisogna preoccuparsi, ma capire, insomma, ve lo ana-lizzerò.

Se volete conoscere subito l’interpretazione di questo sogno, passate al n. 15.

Se invece desiderate conoscere le reazioni degli altri due, passate al n. 13.

  1. Ce le spari grosse, dice il primo. Da quando in qua analizzi i sogni? Già, da quando? incalza il secondo.

Se volete sapere anche da quando, passate al n. 14.

Se no, passate ugualmente al n. 14, perché non lo saprete comunque.

  1. Da quando? esclamò il terzo. E che ne so! Sta di fatto che ho esperienza in materia. State a vedere.

Se volete vedere anche voi, passate al n. 15.

Se no, passate ugualmente al n. 15, tanto non vedrete niente lo stesso.

  1. Ebbene, vediamo! dissero i suoi fratelli. La vostra ironia non mi piace, replicò l’altro, e non saprete niente. D’altronde, durante questa conversazione piuttosto animata, il vostro senso d’orrore non si è attenuato? o non è addirittura svanito? A che pro allora smuovere il pantano del vostro inconscio di liquidi odorosi? Andiamo piuttosto a rinfrescarci alla fontana e a salutare questo gaio mattino nell’igiene e nella santa euforia! Detto fatto: eccoli che scivolano fuori dalla bottiglia, si lasciano dolcemente scivolare per terra sino al teatro delle loro abluzioni.

Se volete sapere che cosa succede nel teatro delle loro abluzioni, passate al n. 16.

Se non lo volete sapere, passate al n. 21.

  1. Tre grignolino smilzi li stavano a guardare.

Se i tre grignolino non vi piacciono, passate al n. 21.

Se vi vanno bene, passate al n. 18.

  1. Tre piccoli pignoletto li stavano a guardare.

Se i tre piccoli pignoletto non vi piacciono, passate al n. 21.

Se vi vanno bene, passate al n. 18.

  1. Vedendosi cosi adocchiati, i tre arzilli dolcetto che erano molto pudichi se la svignarono.

Se volete sapere che cosa fecero dopo, passate al n.19.

Se non lo volete sapere, passate al n. 21.

  1. Scivolarono molto veloci per raggiungere le loro bottiglie e, tappandosele alle spalle, vi si addormentarono di nuovo.

Se volete sapere il seguito, passate al n. 20.

Se non lo volete sapere, passate al n. 21.

  1. Non c’è seguito, il racconto è finito.
  1. Anche in questo caso, il racconto è finito.

La foto è tratta da frenchpeterpan.com (1962)

Dal “deserto di Accona” ad oggi. Viticoltura e clima, dove andiamo? Di Stefano Cinelli Colombini

Oggi si fa un grande parlare di cambiamenti climatici, ma in realtà chi si occupa di agricoltura sa che la situazione ha iniziato a virare verso il caldo e la siccità già dagli anni ’80. Io me ne accorsi nel 1981. La mia famiglia ha terre anche nelle Crete Senesi, il posto più esposto ai mutamenti climatici della Provincia di Siena perché è il più caldo e arido. Non a caso da quelle parti c’è il “deserto di Accona”, l’unico pezzo di Toscana chiamato così. Nel 1981 mi trovai ad affrontare qualcosa di mai visto: il suolo era durissimo, ed arando emergevano delle enormi “fette” di terra che a novembre non si erano ancora sbriciolate. Il caldo e la siccità le avevano cotte, dopo un mese avremmo dovuto seminarle ma non c’era modo. Quasi tutti i vicini rinunciarono, io comprai due frese a martelli e piano piano resi seminabili tutti i 180 ettari di campi dell’azienda. Costò una fortuna tra attrezzi, gasolio e tempo, ma in tutta Italia pochi avevano seminato e così il prezzo del grano duro esplose dalle normali trentamila Lire a quasi ottantamila per quintale, e alla fine ci guadagnai parecchio. Successe ancora nel 1988 e nel 1989, e poi la situazione parve normalizzarsi fino ai terribilmente secchi 2000, 2001 e (soprattutto) 2003. A quel punto iniziai a dire che era necessario affrontare il problema, attrezzarsi per l’irrigazione e creare bacini, ma poi smisi perché vidi che quest’idea non era per niente condivisa. Non mi va di passare per visionario o, peggio, per menagramo.

Crete Senesi Biancane Veduta del versante de Le Fiorentine, di fronte a Leonina nel settembre 2008 Di Gunther Tschuch – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4903601

A questo punto vorrei che perdeste un attimo su un fatto oggettivo, che però nessuno nota: il modo “storico” di fare agricoltura nel Senese è adatto solo ad un clima caldo e secco. È analoga a quella del sud del Mediterraneo, Siria o Tunisia. Solo cereali da arido, grano duro e orzo, molto olivo, vite piantata a filari larghi con i cereali coltivati nel mezzo o molto fitta in piccole parcelle in zone molto vocate. Come unici animali da allevamento la pecora, a cui bastano pascoli poveri, e il maiale che ricicla ogni avanzo. I bovini erano solo animali da lavoro, mai da carne o da latte. Niente cavalli, solo i pochi dei signori, al limite qualche asino. Mancava l’acqua, per cui si erano realizzati decine di migliaia di fontoni (piccoli bacini per la raccolta delle acque piovane), e grandi “colmate” (bacini di sbarramento degli avvallamenti) dove possibile. Le uve erano quasi solo Sangiovese per i rossi e Trebbiano per i bianchi, varietà che marciscono subito se piove ma reggono bene a lunghi periodi di caldo e siccità, anche estrema: quando non ce la fanno più vanno in blocco, chiudono gli stomi e appena piove un minimo o raffresca ripartono e vanno a maturazione. Anche i poderi sono fatti per il caldo: sono nei punti più ventilati, hanno larghi muri “a sacco”, poche finestre piccole, tetti a docci e tegole non isolati che oggi chiameremmo “ventilati”, con poca pendenza e del tutto inadatti alla neve, al freddo o a forti piogge. Ma perfetti per il caldo. Nel Senese tutto questo è troppo diffuso per essere casuale, è evidente che le siccità erano così frequenti da costringere gli agricoltori a questa agricoltura misera, da clima arido. Lo dico anche senza consultare le serie storiche sul clima, che fino ad anni recenti sono poco affidabili. Lo si nota anche nei quadri toscani, dove i terreni sono spogli, secchi e non c’è mai neve o cieli nuvolosi: con il rinascimento compare un po’ di verde, ma non esiste un equivalente senese della Tempesta del Giorgione.

Nel secondo dopoguerra la situazione cambia. C’è un periodo freddo e umido, e arrivano sia la meccanizzazione diffusa che l’agricoltura chimica. Altrove c’erano da tempo, ma non nel Senese. Gli agricoltori pensano di potere (e dovere) cambiare tutto, anche perché il crollo dei prezzi agricoli aveva portato a una terribile miseria e alla fuga dalle campagne: per sopravvivere era necessario reagire, così si agì senza badare troppo alle conseguenze di lungo periodo. La vigna non si pianta più dove c’è un terreno e un clima ideale, ma in ogni suolo delle DOCG e DOC di maggior successo. La disponibilità di mezzi movimento terra a basso costo permette titanici rimodellamenti dei suoli, che spesso ignorano ogni logica idro-geologica e quasi sempre usano lo strato fertile per riempire avvallamenti. Si abbandona l’alternanza tra cereali e prati perché la forza motrice ora è fornita dalle macchine, e non c’è più necessità di produrre erba per alimentare gli animali. E poi la concimazione chimica costa meno, è semplice da usare e rende molto più di quella organica. Di conseguenza c’è una proliferazione enorme delle malerbe, che vengono combattute con uso sempre più massiccio dei diserbi. Lo stesso avviene nelle vigne, dove così si favorisce la proliferazione di piante resistenti al diserbo. I campi vengono estesi sempre di più, togliendo gli alberi giganteschi che erano indispensabili per dare riposo e frescura alle bestie da lavoro (e a chi le usava) durante l’aratura estiva: ora, con i trattori, erano inutili. Le siepi confinarie fanno la stessa fine. Si introducono colture irrigue come il mais, che hanno bisogno di tanta acqua e di terreni resi quasi sterili dai diserbi. Si produce di più, molto di più. Tutto questo provoca il decadimento e poi la fine dell’attività biologica di molti suoli e, a caduta, un aumento esponenziale dell’erosione: negli anni ’80 e ’90 non è raro vedere vigne nei pendii con palchi alti un metro e venti in cima e quaranta o cinquanta centimetri in basso, perché il suolo è stato portato a valle dalle piogge. Ad ogni acquazzone le fossette si riempiono, e aumentano le frane. Nei seminativi estensivi compare la cicuta, pianta che prospera solo nei suoli privi di attività biologica. L’agricoltura del Senese a fine anni ’90 è così, certo c’erano eccezioni come la mia Fattoria dei Barbi ma il quadro generale è questo: forse sostenibile in periodi freddi e piovosi, ma non in tempi di siccità.

Nel 1999 la mia famiglia ha diviso a metà i beni agricoli tra me e mia sorella, e io mi sono trovato per la prima volta nella condizione di poter decidere da solo per la Fattoria dei Barbi. Per dieci anni la divisione aveva bloccato ogni investimento, e il reimpianto dei vigneti non poteva più essere rinviato. Anche perché la situazione di cui ho parlato sopra e il mal dell’esca avevano accorciato drasticamente il ciclo vitale della vite in Toscana, che oggi è tra i venti e i trenta anni. Avevo seguito i lavori del Progetto Chianti 2000 e altri simili, che avevano messo in discussione tutte le certezze sull’allevamento della vite in Toscana e avevano sperimentato ogni tipo di clone, portainnesto, concimazione e sistema di allevamento in ogni terreno e in modo incrociato così da dare un’idea aggiornata di cosa fare nel clima di oggi. Sapevo che dovevo cambiare e, anche se gli altri non ci credevano, ero sicuro che il clima sarebbe peggiorato. Per questo utilizzai quegli studi, e i consigli preziosi di un mio cugino che è uno dei più grandi docenti universitari di viticoltura, il prof. Cesare Intrieri. Ma anche tanti ricordi di vecchi esperti di viticoltura che avevo colto parlando con loro. Cambiai il metodo di preparazione dei vigneti, ri-adottando quelle normali buone pratiche che noi (e tanti altri) avevamo abbandonato. Ora il mezzo metro di terreno fertile viene sempre messo da parte prima dello scasso, poi si fa un moderato rimodellamento dei suoli e si lasciano al loro posto gli alberi monumentali. In caso di pendenze si spezza in più parti il vigneto, e si fanno stradoni per fermare l’erosione. Dopo aver sistemato il terreno si rimette lo strato fertile e su quello si pianta la vigna. Ma, soprattutto, ho adottato un sistema di allevamento nato per tenere in equilibrio naturale la vite. Da secoli, e forse da millenni, ovunque nel mondo alleviamo vigne “bonsai”: con infinite potature costringiamo una pianta rampicante gigante a nanizzarsi, ma perché? Costa tantissimo, e espone a molte patologie che partono dai tagli troppo frequenti e troppo estesi. Il prof. Intrieri è soprattutto uno studioso della fisiologia della vite, e ha inventato un sistema di allevamento che (a regime) richiede solo potature minime perché da il naturale sfogo alla pianta: il Cordone Libero. Non sto a descriverlo, lo trovate su internet, qui basta dire che riduce molto la quantità di foglie che però sono tutte esposte al sole, per cui lavorano tutte sempre: questo fa calare il fabbisogno di acqua (meno foglie, meno evaporazione), ma aumenta la “potenza” del “motore” fotosintetico della vite perché tutte quelle poche foglie lavorano, mentre nei cordoni tradizionali la metà o più è coperta dalle altre e non lavora. Per cui il Cordone Libero soffre meno la siccità, e in genere matura bene l’uva anche in stagioni avverse. Meno foglie e niente affastellamento vuol dire meno esposizione alle patologie, per cui meno fitofarmaci. L’unico inconveniente è che produce poca uva, ma nel caso dei vini di pregio questo non è un limite. Cosa altro ho fatto? Ho ridotto la densità di impianto. Può sembrare un’eresia, ma in una situazione di frequente siccità la competizione per l’acqua deve diminuire. Meno piante, meno competizione. Oggi metto da 4.000 a 5.000 piante per ettaro, a seconda dei limiti imposti da Disciplinari, e lascio un interfilare di tre metri per dare libero sfogo ai tralci ed evitare che si facciano ombra tra di loro. La concimazione è quasi solo organica, e pratichiamo a filari alterni l’inerbimento; non su ogni fila, perché altrimenti il terreno potrebbe non assorbire tutta l’acqua che cade. E già è poca. Se la siccità è forte, come ora, rimuoviamo l’inerbimento con una rippatura molto superficiale per eliminare l’evaporazione capillare. Questo costringe l’umidità a tornare in basso. Se necessario lo facciamo più volte, è un metodo antico ma efficace. Non usiamo diserbo, lavoriamo quando necessario il sotto-fila. Ogni tre o quattro anni, a seconda dei terreni, passiamo a filari alterni con un aratro talpa, un erpice mono-dente che penetra per 1-1,2 metri e termina in una palla, che è trascinata velocemente e spacca le radici delle viti a centro filare costringendo la pianta a rinnovarle. Questo la “ringiovanisce”, e la forza ad approfondire l’apparato radicale alla ricerca dell’acqua. Curiamo molto la salute della chioma, non usiamo insetticidi ma da vent’anni seminiamo insetti. Stiamo sperimentando prodotti che favoriscono la resistenza naturale della vite alle malattie e la resistenza ai climi estremi, ma non abbiamo risultati definitivi. Per ora non siamo certificati bio perché non amo le complicazioni burocratiche e credo poco nel rame, ma usiamo quasi solo prodotti bio. Non credo neppure nella biodinamica, nel suo corno-letame o nel suo oroscopo, per carità, ma guardo con attenzione certe loro pratiche. Nessuna delle cose che facciamo è di per sé risolutiva, ma nel loro insieme mettono le viti in grado di affrontare meglio climi ostili, siccità o caldo eccessivo e basta andare in vigna in questi giorni di siccità per constatarlo. Credo più in queste cose che nell’irrigazione, perché quando è davvero caldo puoi irrigare quanto vuoi ma se la pianta non è resistente di suo non ce la fa. I risultati hanno richiesto anni, e la differenza si nota di più nelle annate avverse perché riusciamo sempre ad avere buone uve. Poi naturalmente l’eccellenza è figlia della natura, e si fa solo in anni speciali. La Fattoria dei Barbi non è unica, tutto Montalcino ha adottato pratiche di questo tipo e le ricadute sulla qualità sono evidenti. C’è sempre più agricoltura sostenibile in Toscana, ovunque, non si diffonde rapidamente come a Montalcino ma sta arrivando. La cosa divertente è che tutti questi accorgimenti non producono costi aggiuntivi, anzi.

Questa è l’esperienza della Fattoria dei Barbi, che non ha la pretesa di essere un caso di scuola. Quello che si può trarre dalla nostra storia non sono le singole azioni, che in situazioni diverse potrebbero essere inutili o non replicabili, è l’idea che l’agricoltura non va fatta in modo statico. Casomai, credo che una analisi del nostro caso dovrebbe stimolare qualche domanda sul dove vogliamo andare. Quest’anno l’acqua manca, ed è probabile che non sarà un fenomeno isolato. In questa situazione, non è il caso di ripensare all’intera viticoltura prima che l’emergenza ci costringa a farlo? È realistico pensare che l’irrigazione di soccorso diventerà una prassi normale, ma proprio per questo sarebbe utile porsi un problema: ci possiamo ancora permettere di piantare le vigne ovunque? Non è il caso di tornare alle sole zone realmente vocate, invece di piantare in ogni parte delle DO di successo? O dove vuole il proprietario, che magari fino a ieri faceva il creativo a Milano e ora vuole re-inventare l’agricoltura? Non è il caso di inserire l’analisi pedologica nei Disciplinari, limitando la possibilità di produrre ai soli terreni biologicamente vivi? Forse, per le produzioni oltre 120 quintali per ettaro avrebbe un senso proibire ogni forma di irrigazione: se la natura porta a maturazione l’uva va bene, ma se queste rese esistono solo grazie all’uso di acqua irrigua (che manca) che senso hanno? Queste non sono provocazioni, sono i pensieri realistici di un conservatore che spera di salvare l’essenza della viticoltura adattandosi ai cambiamenti prima che ci travolgano. Capisco che molti hanno legittimi interessi a continuare a fare come è stato sempre fatto, ma sarà possibile? Temo di no.

Le parole per descrivere il vino alla fine del 1800

Ritratto di Ottavio Ottavi (1849-1893), agronomo e divulgatore scientifico italiano. Di B. Console – «Giornale vinicolo italiano», nr. 24, 1893, 22nd of January, page 49., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=24220923

Ottavio Ottavi nasce a Sandigliano (Biella) nel 1849 e muore a Casale Monferrato nel 1893. Fondatore del “Giornale Viticolo Italiano”, è conosciuto soprattutto per le sue pubblicazioni, tra cui spiccano “La viticoltura razionale” del 1880 e il famoso (godette di tredici ristampe) “Enologia teorico-pratica” del 1882.

Mi sono imbattuto in un suo testo “minore” (arrivò soltanto a cinque edizioni), “Il vino da pasto e da commercio”, quarta edizione con appendice sui metodi di fabbricazione nelle principali provincie vitifere italiane casale tipografia sociale del Monferrato, C. Cassone, Casale Monferrato 1874 (la prima edizione risale al 1873). Un vero e proprio manuale che contiene un po’ di tutto: dai consigli ai produttori, all’enotecnica, alla chimica enologica, ai maggiori difetti della produzione vinicola e come porvi rimedio, alla cantina e alla tinaia, alla vendemmia, ai correttivi… e, per concludere, alle alterazioni e alle adulterazioni dei vini. In mezzo a tutto questo, a pagina 28, trova spazio un “Piccolo vocabolario enotecnico”: “L’idea di far precedere a questi appunti di enologia un piccolo vocabolario, la debbo a quel valente che è il De Vergnette -Lamotte, il quale nell’appendice della sua opera «Le Vin» ha un breve ma utilissimo Vocabulaire oenologique, ove egli apprende al lettore quale sia il vero significato di parecchi fra quei vocaboli tecnici che la lingua francese ha consacrato all’arte del vinajo. Io tenterò di fare altrettanto per il nostro idioma, nella speranza che sorga poscia altro, di me più valente, a completare un lavoro che certamente lascerò incompleto”. L’intento finale è quello di trovare un senso comune alle parole che si usano per descrivere i vini e i loro difetti. O, almeno, un accordo su di esse. Se ci pensiamo bene è ciò che una lingua, attraverso le sue comunità e i suoi interpreti ed estensori cerca di fare in ogni situazione e in ogni epoca storica. Codificare un linguaggio significa anche gestire il potere che da esso ne deriva e, allo stesso tempo, contribuire alla sua formazione. Leggetevi, ad esempio, la voce sul vino “Sostenuto”: “Sostenuto dicesi del vino ricco di materie estrattive, e di colore: è un vino di macerazione buono per l’operaio ma non è un vino fine”. Buono per l’operaio, serve per lavorare, un vino che lo sorregge: quanti dibattitti e scontri politici si aprirono tra fino Ottocento e inizi Novecento sul vino “adatto” alla classe operaia e al lavoro massacrante nelle fabbriche o nei campi!

Le schede di degustazione, ancora oggi, non sono soltanto un mero esercizio tecnico, ma politico. In questo piccolo vocabolario sono contenuti alcuni mondi interpretativi, dei riferimenti alle grandezze o alle debolezze costitutive di alcuni vini, delle comparazioni che oggi risulterebbero improbabili e molto altro. E, per concludere, la lingua come sistema filosofico: ad esempio l’aroma che si riferisce al gusto tipico delle uve, “all’acino stesso” e che non si deve confondere con la fragranza, tipica dell’odorato e con il sapore, a cui partecipano distintamente, le varie tipologie dei vini.

Fatevi un giro, godendovi questa ubriacatura di parole!

Abboccato. Dicesi di vino in cui non si appalesa la benché minima asprezza; il sapore di esso tende, assai leggermente però, al dolce, ma ad un dolce frizzante, pieno di finezza.

Acerbo è quel vino nel quale il palato discerne l’asprezza unita all’agrestume: per lo più è un vino giovane, poco pregevole.

Agro è quel vino in cui sovrabbondano l’acido tartarico o il bitartrato acido di potassa o tartaro.

Aspro è quel vino nel quale eccede l’acido tannico e spesso anche l’acido malico. È un sapore astringente che accusano i vini ad esempio di nerano o di fresia, se giovani.

Acetume è la malattia detta «dell’aceto» già sviluppata. Il vino è acido, acetoso, forte, ecc.

Asciutto. Veggasi corto.

Amaro (amarore o amarume). Nota malattia che coglie preferibilmente certi vini scelti. Il dolcetto di Alba è da noi quel vino che, a simiglianza del Pinot in Francia, va soggetto a questa malattia.

Austero è un vino il quale, tuttoché sia alquanto ruvido, non manca tuttavia di una tal qual pienezza (corpo). Il Barbera proveniente da breve macerazione coi raspi, è vino austero: è tale anche il fresia.

Aroma. È quel quid particolare che sentesi dalle papille nervose della lingua, in altri termini al gusto, masticando l’acino di certe uve dette aromatiche; cosi, per grazia di esempio, il Nebbiolo, l’Aleatico, il Montepulciano, la Malvasia e via dicendo. Ma si badi a non confondere col l’aroma la fragranza come generalmente fassi: né si ha a far tutt’una cosa sola dell’aroma e del sapore. La fragranza non la sentiamo all’odorato che dopo una certa maturità del vino: l’aroma esiste non solo nel mosto, ma nell’acino stesso: il sapore lo sentiamo al gusto in tutti i vini indistintamente, poiché gli è un distintivo delle singole specie di vizzati (della vite); l’aroma, che è un grado superlativo del sapore, cioè un eccesso, sto per dire, del sapore, lo sentiamo necessariamente soltanto nelle varietà aromatiche. Con alcuni esempi chiarirò meglio coteste distinzioni: il vino di Champagne ha sapore e molta fragranza; il vino di Malvasia ha sapore aromatico e fragranza; io ho tolto l’aroma ad un mio vino di malvasia nera, ed ho tuttavia ottenuto un ottimo vino saporito e fragrante: il vino di Chianti od il Barbera, non hanno un aroma, bensì un sapore più o meno fragrante.

Arsiccio. Gusto o sapore del vino proveniente da uve leggermente appassite o vizze. I francesi dicono goût de figué oppure de rôti.

Basso dicesi del vino piccolo, o di pianura, destinato ai consumatori meno agiati. Sono vini bassi quelli deficienti in alcool ed in fragranza; del resto se ben fabbricati, i vari costituenti trovansi nelle giuste proporzioni gli uni rispetto agli altri.

Brioso. Vino frizzante per il piccolo eccesso di acido carbonico che contiene: è quasi sempre poco gagliardo; non è mai un vino superiore da pasteggio.

Cercone. Veggasi «girato».

Corpo. Il vino ha del corpo, ha della pienezza, quando tutti i suoi constituenti pajon essere intimamente legati gli uni agli altri, in maniera da formare un tutto completo ed armonico al palato. Vergnette-Lamotte dice che il vino che ha corpo, non diventa magro coll’invecchiare; (v. magro). Ove poi alla pienezza vadan unite la delicatezza, la fragranza, si ha un liquore perfetto. È tale il vero nebbiolo di Barolo, se ben fabbricato; dico cosi perché molti hanno il coraggio di porre in commercio dei baroli dolciastri e spumeggianti… !

Corto. Chi mi insegna un vocabolo con cui designare quel vino il quale, benché buono, non lascia che una breve e fugace impressione sulle papille nervose della lingua? che cioè, lascia la bocca asciutta, come dicono i bevitori buongustaj qui del Monferrato? Ho rovistato pressoché tutti gli autori italiani più estimati, ma non ho trovato che il vocabolo «asciutt » che credo però un sinonimo di « secco » (vedi ivi ) . Perciò mi sono azzardato a voltare in italiano il court dei francesi: secondo Vergnette- Lamotte un vino dicesi court, quand l’impression de sa saveur s’efface brusquement du palais. Invoco l’indulgenza dei cruscanti per questo mio atto arbitrario!!

Carico dicesi sempre del vino in cui sovrabbonda la materia colorante, l’enocianina.

Dolcigno. Vino che tende al dolce sgradevole: è bevanda spregevolissima per pasto, se pure non si ha le goût gatè!  

Fragranza. Da non confondersi né coll’aroma né col sapore: è solo l’odorato che la riconosce: essa sviluppasi nel vino man mano che matura; è il bouquet dei francesi. L’aroma ed il sapore si conservano, in più o men grandi proporzioni, anche se il vizzato muta plaga: la fragranza invece, che è cosa ben più fine e dilicata, scompare sempre se il vitigno cangia terreno, clima ed esposizione. Il dotto Oudart dice a ragione che le viti di Bordò, di Borgogna e del Reno, trasportate in altri paesi, non hanno mai prodotto né produrranno mai vini simili, nella fragranza, a quelli del Bordolese, della Borgogna e del Johannisberg. E noi sappiamo benissimo che il nebbiolo coltivato in altri siti che non siano le terre di Barolo, perde di quella sua special fragranza che lo fanno il primo vino fine da pasto dell’Italia. Aggiungerò qui, a titolo di curiosità, che lo stesso nebbiolo coltivato a Gattinara, a Lessona, a Ghemme, a Carema, vi dà vini stimatissimi, ma che nulla hanno che fare col nebbiolo di Barolo, né gli uni cogli altri.

Frizzante. Si dice al vino quando nel berlo si fa sentire in maniera che ci par che punga. I francesi dicono, vin vif. Vergnette- Lamotte dice che le vin vif pénétrera jusqu’aux réduits les plus reculés de l’organe du goût. Si badi che il vino frizzante è quasi sempre poco gagliardo: non è insomma un gran vino, perché è quasi sempre l’acido carbonico che gli infonde quel brio; brio però di falsa lega, perché svaporato il gaz rimane un vino insipido, come accade ad esempio ad un vino che si scaldi, facendogli perdere tutto il suo acido carbonico (v. brioso)

Filante. Lo stesso che grasso.

Finezza. Un vino avrà della finezza allorquando i suoi componenti non urteranno in nulla l’organo del gusto; la finezza spetta solo ai più celebrati vini.

Franchezza. Allorché nel vino non havvi il più lontano dubbio di futura alterazione, dicesi che ha della franchezza.

Fracidiccio o fracidino, è il sapore di fradicio causato dalle uve ammostate in incipiente putrefazione.

Girato dicesi del vino Cercone. Posto entro un bicchiere, lascia all’ingiro un cerchio di color giallo sporco, quasi di birra; di qui l’appellativo di cercone. Il lettore desioso di maggiori dettagli a quanto è detto al capitolo delle «malattie del vino».

Grasso o filante è il vino che assume consistenza oleaginosa: versato infatti nel bicchiere da una certa altezza, cade dolcemente, senza rumore, quasi fosse olio. È la malattia comune de vini bianchi: mi fu però dato d’osservarla alcune volte anche in certi vini rossi, o neri che dir si vogliano.

Generoso è il vino che, oltre all’avere corpo, pienezza, abbonda alquanto nell’alcool.

Incerconito, dicesi del vino cercone o girato.

Imbrunito, dicesi del vino che incomincia a sobbollire ma che però, fintantoché sta chiuso per entro la botte, non si guasta molto sensibilmente né nel sapore né nel colore. Esposto che sia all’azione dell’ossigeno dell’aria, si colorisce in bruno (color bigio-nero o monachino). Non è da confondersi l’imbrunimento col subbollimento.

Insipido dicesi del vino che ha perduto (o perché riscaldato o per altra causa) tutto il gaz acido carbonico che teneva disciolto: rimane allora un vino scipito che i francesi chiamano évente.

Leggiero è il vino deficiente di corpo, di fragranza, spesso anche di colore: tuttavia al gusto riconoscesi un certo equilibrio fra i componenti. È vino da pasteggio di 2.a qualità, punto commerciabile. Dicesi anche vino basso o di pianura.

Legnoso, è il vino che sa di legno, che sa di secco (Veggasi secco. )

Magro è il vino che coll’invecchiare ha perduto parte di quella pienezza, di quel corpo che aveva prima. Non si confonda il vin magro col vin scemo, che è ben più.

Molle (V. dolcigno)

Muffaticcio. Un grado di più del fracidiccio.

Pastoso. Il vino austero, invecchiando, prende morbidezza, pastosità: i francesi dicono rondeur. Pastoso, dicesi anche di vino amabile, fragrante, soave: esempio, i vini dolci di Siracusa.

Passante, da non confondersi con leggiero: è passante il vino che bevuto al pasteggio anche con un cotal abuso, pure non riesce difficile a digerirsi: vino insomma di prima qualità, ed igienico. Es. il vero bordeaux, il vero barolo.

Piccolo suona lo stesso che basso.

Profumo per fragranza non pare troppo ben detto. La fragranza è qualche cosa di più dilicato del profumo, il quale, d’altra parte, ha troppo del profumiere e del l’unguentario!

Raspatino. Vino di 2.a qualità, cioè non tanto gagliardo e pieno, ma pur frizzante ed aggraziato.

Raspante o Raspeo. Vino raspatino in cui eccede debolmente l’acido tartarico.

Rotto. Non si confonda il vin rotto, né col scemo, né col magro, né col molle, né collo scipito: è un sapore meno fragrante che prende talora il vino quando lo si imbottiglia, aerandolo di soverchio. Dopo un certo tempo (io ho osservato che bastan spesso 5 o 6 mesi) il rotto scompare, ed il vino diventa o buono come prima o migliore.

Ruvido dicesi di quel vino che, senza finezza, è sempre carico di colore. Quello che è l’acerbo nei vini giovani, è il ruvido nei fatti. Devesi attribuirlo ad un eccesso degli acidi tannico e malico (V. austero ); forse per ciò si con serva bene assai. È tale quasi tutto il vin di fresia, e specialmente il raboso del Veneto.

Svanito o scemo, dicesi del vino che ha perduta la fragranza ed anche dell’alcool, ad esempio rimanendo in botte scema.

Scipito. Vedi insipido.

Subbollito . Vino che, fattosi dapprima torbido, fermenta poi sensibilmente, esercitando, se in fusti, una forte pressione contro le doghe dalle cui connettiture trapela. I francesi perciò dicono maladie de la pousse. Alcuni autori italiani adoperano promiscuamente subbollito e torbido: mi duole di non poter sottoscrivere a ciò, per la ragione che un certo qual intorbidamento accompagna parecchie fra le malattie del vino.

Stitico, vale aspro, astringente.

Sapore. Da non confondersi né coll’aroma né colla fragranza: è solo il palato che lo riconosce prima nell’uva: poi nel vino. Secondo Oudart appalesasi persino nelle foglie e nel legno, masticandoli. Il tempo, il terreno diverso per natura, le varie esposizioni ed i vari climi, sono impotenti a mutarlo: è un distintivo insomma delle singole specie. Se il sapore ha un non so che di assai pronunciato, diventa vero aroma. Il barbera ha il suo peculiar sapore, l’aleatico ha un marcato aroma, o sapore aromatico che dir si voglia.

Sostenuto dicesi del vino ricco di materie estrattive, e di colore : è un vino di macerazione buono per l’operaio ma non è un vino fine.

Spunto o fortore o fuoco. Il vino «ha lo spunto quando incomincia a farsi acetoso. È come dire il primo stadio della terribile malattia «dell’aceto».

Secco è quel vino che impressiona il palato senza essere né aspro, né agro, né troppo alcoolico. Il vino che sa di secco è però difettoso. 

Vinoso dicesi del vino che al palato accusa ricchezza in alcool; generosità cioè, accompagnata da pienezza.

Vellutato dicesi del vino che ha grande finezza.

I vini bianchi? Meglio in bottiglie di vetro scuro

Olive-coloured wine bottle from about 1740s Di Frank Papenbroock Trasferito da de.wikipedia su Commons.(Testo originale: eigenes Bild ), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2044738

Il 16 maggio del corrente anno è stato validato e pubblicato uno studio1 di ampia rilevanza scientifica il cui intento era quello di indagare, utilizzando 1.052 bottiglie di 24 vini bianchi, le variazioni del volatiloma del vino bianco in condizioni di conservazione tipiche dei supermercati.

Il testo è interamente reperibile qui: https://openpub.fmach.it/retrieve/07273b2d-5aac-482c-a596-fb358114db00/2022%20PNAS%20Mattivi.pdf

Lo scopo del lavoro è stato quello di studiare l’influenza dell’esposizione alla luce sulla volatilità del vino bianco nelle tipiche condizioni di stoccaggio supermercato e di monitorare i composti. Per ottenere risultati importanti e capienti, lo studio sperimentale si è strtturato sulla rirpoduzione di una stanza che imita le condizioni tipiche di un supermercato: temperatura controllata, luci artificiali accese 12 ore al giorno e una piccola quantità di luce naturale che entrava attraverso le tende; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate attraverso una gascromatografia completa, sono stati considerati essenziali ai fini dei risultati ottenuti.

Dopo soli 7 giorni di conservazione in bottiglie di vetro flint2, è stata registrata una drastica perdita di terpeni (dal 10 al 30%) e di norisoprenoidi3 (dal 30 al 70%), mentre le bottiglie di vetro colorato non hanno evidenziato un simile comportamento nemmeno dopo 50 giorni e l’oscurità ha preservato l’integrità aromatico fruttato e floreale del vino.

Già Dozon e Noble4 avevano descritto i cambiamenti sensoriali causati dall’irraggiamento luminoso nei vini bianchi fermi e spumanti, menzionando la perdita dell’aroma di agrumi e un aumento del difetto di luce già dopo poche ore. Mattivi et al. avevano ottenuto risultati simili nel loro studio basato su 85 vini bianchi (ad esempio, Chardonnay, Pinot grigio), che avevano dimostrato il ruolo importante della riboflavina: “Il Gusto di Luce (Goût de Lumière) è una alterazione aromatica che si evidenzia in alcuni vini bianchi e rosati a seguito della non correttaa conservazione delle bo glie di vino, esposte a sorgenti luminose. E’ stato descritto per la prima volta nel 1981 da Emmanuelle Charpentier e Alain Maujean dell’Università di Reims, che avevano che avevano riscontrato deviazioni aromatiche in vini Champagne. Il difettoo appare soparttuttoin vini imbottigliati in vetro chiaro e si manifesta con una variazione del colore e con un’alterazione aromatica più o meno marcata. Il vino inizialmente risulta fortemente impoverito delle note fruttate e floreali e, successivamente, si arriva alla comparsa di odori sgradevoli di gomma, cipolla, aglio, cavolo cotto e uovo fradicio5”.

In conclusione, una diminuzione così sostanziale di terpeni e di norisoprenoidi ha enormi conseguenze per la qualità, la tipicità e l’identità dei vini bianchi neutri o poco aromatici in un periodo estremamente breve. La diminuzione, in primo luogo, dà origine a un prodotto meno aromatico e, in secondo luogo, lascia il vino spoglio di metaboliti. Pertanto, le bottiglie di vetro flint danneggiano la qualità del vino in due modi: direttamente, diminuendo le caratteristiche organolettiche positive e, indirettamente, esaltando quelle negative.

1 Silvia Carlina, Fulvio Mattivia, Victoria Durantinia , Stefano Dalledonnea, and Panagiotis Arapitsasa, Department of Food Quality and Nutrition, Research and Innovation Centre, Fondazione Edmund Mach, 38098 San Michele all’Adige (TN), Italy; Department of Cellular, Computational and Integrative Biology, University of Trento, 38123 Povo Trento (TN), Italy; and Department of Wine, Vine and Beverage Sciences, School of Food Science, University of West Attica, Egaleo, 12243 Athens, GreeceL

2 Flint glass, also called Crystal, or Lead Crystal, heavy and durable glass characterized by its brilliance, clarity, and highly refractive quality. Cfr. https://www.britannica.com/technology/flint-glass

3 I Norisoprenoidi scaturiscono dall’azione della luce e degli enzimi ossidasici (polifenolassidasi e lipossigenasi) sui carotenoidi (molecole di pigmenti organici a 35/40 atomi di carbonio), contenuti nella buccia dell’uva, trasformando questi ultimi in frammenti molecolari più piccoli, quindi maggiormente solubili, volatili, e soprattutto odorosi. Si ha formazione di composti ossigenati (chetoni) in posizione 7, dando origine al gruppo del damascone (aromi floreali, frutta tropicale, mela cotta), in posizione 9 dando origine al gruppo dello ionone (aroma di violettaPer ottenere risultati robusti e ampi, lo studio sperimentale è stato basato sull’uso di una stanza che imita le condizioni tipiche di un condizioni tipiche di un supermercato; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate, attraverso una gascromatografia completa, è stato ritenuto essenziale.). Frammenti a Per ottenere risultati robusti e ampi, lo studio sperimentale è stato basato sull’uso di una stanza che imita le condizioni tipiche di un condizioni tipiche di un supermercato; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate, attraverso una gascromatografia completa, è stato ritenuto essenziale.13 atomi di carbonio ossigenati in posizioni diverse danno al vino note di thè o tabacco. La trasformazione di questi ultimi in ambiente ridotto porta alla formazione di 1,1,6-trimetil-1,2-diidro naftalene(abbreviato TDN), spesso non ricercato per il suo odore di kerosene, ma che tuttavia, risulta Per ottenere risultati robusti e ampi, lo studio sperimentale è stato basato sull’uso di una stanza che imita le condizioni tipiche di un condizioni tipiche di un supermercato; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate, attraverso una gascromatografia completa, è stato ritenuto essenziale.essere importantissimo fattore nello sviluppo dell’aroma terziario del Riesling Renano, al quale conferisce la caratteristica e distintiva nota di petrolio bianco. https://ilnasodelvino.com/?cultura=le-sostanze-odorose-dei-vini

4 Cfr. N. M. Dozon, A. C. Noble, Sensory study of the effect of fluorescent light on a sparkling wine and its base wine. Am. J. Enol. Vitic. 40, 265–271 (1989)

5 https://laffort.com/wp-content/uploads/Laffort-Info/Laffort_info_123_Gusto_Luce-1.pdf

Forse i millenial non sanno che farci con il vino. Alcuni spunti a partire dagli articoli di Jacopo Cossater e Angelo Peretti

Il nastro di Möbius è una superficie non orientabile: ha infatti una “faccia” sola. Questo è un oggetto studiato in topologia. Di David Benbennick – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50359

Sia Jacopo che Cossater che Angelo Peretti sottolineano, nei rispettivi e preziosi articoli, il fatto che le nuove generazioni (millennial all’incirca) abbiano valori significativamente diversi dai loro genitori e come, coerentemente con questo, anche il loro approccio al vino sia mutato rapidamente nel corso degli ultimi decenni: “sono più attenti alla salute e all’ambiente, cercano quindi vini con meno alcol, meno calorie e capaci di trasmettere una maggiore idea di trasparenza a proposito del loro procedimento produttivo” – scrive Jacopo Cossater[1]. E così Agnelo Peretti: “L’assunto è che i nati nel nuovo millennio abbiano un approccio con il vino – e io aggiungo anche con il lavoro, con lo studio e con la socialità – lontano da quello dei genitori, perché sono portatori di valori diversi da quelli dei genitori, e potrei perfino dire che, per loro, è diverso soprattutto il valore del tempo, del denaro, dell’equilibrio della vita su un pianeta che si affaccia al dramma ambientale[2]”.   

I valori fanno riferimento a dei contenuti espliciti ed impliciti (politici, ecologici, religiosi…), a dei fini perseguibili (strumentali o meno), alla loro pervasività e influenza sociale (comunità, classi, nazioni…) e alla loro organizzazione dimensionale con altri valori all’interno di un contesto collettivo. In altre parole i valori sono esplicitamente connessi a dei modelli culturali di attinenza. Se quanto detto ha una sua plausibilità esplicativa, sarebbe opportuno cercare di circoscrivere il concetto di cultura, per quanti limiti ogni formula definitoria porti con sé. Ogni azione e pratica umana che abbia un carattere trasmissibile, non geneticamente s’intende, e nello stesso tempo simbolico (sociale e psicologico) rientra nella sfera culturale: per capirci mangiare con una forchetta è una pratica culturale allo stesso modo in cui lo è andare a teatro. In tutte le culture esiste una parte di conoscenza data per scontata e non tematizzata, alla quale nella teoria sociale sono stati dati di volta in volta nomi diversi quali “senso comune” (Schütz), “egemonia” (Gramsci), o “doxa” (Bourdieu). Questo significa anche che non tutte le culture sono necessariamente interpretate dai soggetti agenti: per dirla con Bourdieu l’«universo del discorso» coesiste sempre con un «universo dell’indiscusso» almeno altrettanto esteso. “In altri termini, l’intenzionalità, la razionalità, l’interesse e il calcolo non sono al principio di tutta l’azione umana: nella realtà esiste una pluralità di logiche di azione che si differenziano proprio per il grado di riflessività del rapporto che il soggetto intrattiene con il proprio agire e che possono essere collocate su un continuum che va dal polo dell’azione totalmente cosciente a quello dell’azione totalmente irriflessiva[3]”. 

Per tornare al tema in questione i punti aperti rimangono davvero molti. Soltanto per restare sul piano della trasmissione temporale o generazionale, il vino, non meno di altre pratiche culturali, fa parte di una catena interrotta o parzialmente interrotta: quello che era comune per altre generazioni, pasteggiare sempre con il vino ad esempio, non lo è più da tempo. E le ragioni sono diverse e sedimentate negli anni (salute e salutismo, controllo repressivo, scomparse generazionali e mutazioni del senso comune, nuove pratiche comunicative, prezzi al consumo…)

Lo stesso potrebbe dirsi per un altro fenomeno che ha assunto un’enorme rilevanza nel corso degli ultimi decenni: il consumo del vino è uscito quasi completamente dal polo dell’azione culturale irriflessiva. Per lunghissimi decenni, a parte strettissime cerchie di critici e accoliti del vino pensato e ragionato, il consumo del vino apparteneva ad un campo culturale, mi si passino i termini, endogeno, ovvio, oserei dire ordinario: lo si beveva, insomma, perché così era la prassi familiare, amicale, comunitaria, di classe, sociale e così via. Dopo di che il vino, non meno della politica e di altre belle arti, ha rivendicato a sé, gradatamente, uno statuto di separatezza e di specializzazione cognitiva. Specializzazione che si è riversata sempre più in cerchie di professionisti. Chi ha contribuito a tutto questo? Diversi soggetti: associazioni di sommellerie, stampa specializzata, produttori, associazioni di consumatori, blogger come noi, corsi universitari, investitori… e via dicendo. Nulla di male o di bene in sé: è semplicemente una constatazione. Mai come oggi il vino, prima di essere bevuto (e sottolineo il prima cosciente), deve essere pensato, ragionato e valutato. Il balzo trentennale più evidente mi pare che sia stato proprio questo: il cambiamento di paradigma culturale. Ora, la domanda che pongo è questa (domanda che ne tiene molte altre assieme): è forse plausibile che le nuove generazioni si rivolgano a quelle bevande alcoliche che non abbiano necessariamente un contenuto culturale riflessivo ad alta gradazione come il vino? Non rappresentano, forse, i cocktail, per tornare a citare Jacopo, degli artefatti componibili a piacimento più rispondenti a delle partiche culturali mixo-logiche come la musica, la moda, le fotografie e i social in genere? E aggiungo, per finire, un’altra domanda: è sufficiente cambiare modelli comunicativi per modificare il senso percepito e praticato del vino?


[1] JACOPO COSSATER, Il mondo del vino non sa che fare con i Millennial, in https://www.editorialedomani.it/fatti/vino-divano-jacopo-cossater-millennial-ht4ew6ef

[2] Angelo Peretti, Il vino, i mercanti e gli uomini saccenti, in http://internetgourmet.it/vino-mercanti-gli-uomini-saccenti/

[3] Pier Paolo Giglioli, Paola Ravaioli, Bisogna davvero dimenticare il concetto di cultura? Replica ai colleghi antropologi in Rassegna Italiana di Sociologia (ISSN 0486-0349) Fascicolo 2, aprile-giugno 2004

I libri che hanno fatto la storia del vino in Italia. Dagli albori del XIV al XVII secolo

Calendario di agricoltura di Pietro de’ Crescenzi, da un manoscritto del XV secolo
Di Master of the Geneva Boccaccio – http://ecole.orange.fr/college.saintebarbe/moyenage/travaux.htm#Saison, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1949466

L’importanza della letteratura enologica, agronomica e viticola in terra italica, a partire dal secolo XIV e soprattutto in quelli successivi, è davvero rilevante. Naturalmente non è pensabile parlare dei libri che si occupano di vino senza fare riferimento ad alcuni elementi tra loro strettamente collegati: lo sviluppo delle tecniche agrarie, del pensiero e delle competenze scientifiche (e del nuovo veicolo comunicativo rappresentato dai caratteri a stampa grazie all’adattamento di un torchio da vino), da cui il maggior potere entro le corti, non senza conflitti col potere temporale papale e laico, degli scienziati; i cambiamenti nell’organizzazione sociale e l’emergere di nuovi ceti produttivi; il potere medico (diversi dei trattatisti di enologia sono ancora medici secondo l’antica tradizione e ciò a significare non solo l’uso del vino nella farmacopea, come già evidenziato nel capitolo precedente, ma anche lo stretto connubio tra piacere e cura di cui l’arte medica e il potere derivante sono ancora pienamente titolari); la concezione del bello e del buono, soggetta a nuovi canoni interpretativi, che si fa strada tra le arti e nella gastronomica.

Occorre cominciare la narrazione dal Ruralium commodorum libri XII di Pier de’ Crescenzi1, scritto nel 1305 circa, che viene dedicato a Carlo II d’Angiò, re di Sicilia (detto lo Zoppo, 1254-1309): diffuso come manoscritto in 109 copie, ha la prima edizione a stampa soltanto nel 1471. Poi alcune altre edizioni ravvicinate a fine Quattrocento: In commodum ruralium cum figuris libri duodecim, Speier, Peter Drach, c. 1490-1495; De Agricultura, Venezia, Matheo Capcasal, 1495. E di altre ancora nel Cinquecento: P. Crescenzi, De’ Opera di agricoltura. Ne la qual si contiene a che modi si debbe coltiuar la terra, seminare inserire li alberi, gouernar gli giardini e gli horti, la proprieta de tutti i frutti, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona vercellese, 1536; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona, 1528; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano, 1538; Id., De omnibus agriculturae partibus, & Plantarum animaliumq; natura & utilitate lib. XII…, Basileae, per Henrichum Petri, 1548.

Le diverse ristampe di un testo divenuto classico indicano l’interesse crescente verso la formazione agronomica e la possibilità della sua diffusione oltre un mero ambito specialistico o di rappresentanza politica. Ed è proprio attraverso de’ Crescenzi che vengono ristampate le opere latine di riferimento dell’autore: Catone, Varrone, Columella e Plinio il Vecchio.

Con un piccolo balzo in avanti non si può non menzionare lo scritto di Agostino Gallo, il più importante agronomo del tempo il quale pubblica, nel 1564, a Brescia, le Dieci giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa: «a questa seguirono tre edizioni veneziane tra il 1565 e il 1566. Nel 1566 dall’officina del veneziano Nicolò Bevilacqua uscì una versione notevolmente ampliata, dal titolo Le tredici giornate; nel 1569 uscì dapprima, sempre a Venezia ma questa volta dalla tipografia di Grazioso Percaccino, un’appendice autonoma intitolata Le sette giornate dell’agricoltura, destinata a confluire, in quel medesimo anno, nell’unico volume de Le vinti giornate dell’agricoltura. Questa fu l’edizione definitiva e servì da base per tutte quelle successive, che finirono per dare vita ad una vicenda editoriale di assoluto rilievo nel panorama italiano di quell’epoca: dodici edizioni nel corso del XVI secolo (nove a Venezia, due a Torino ed una a Brescia); sei del XVII secolo (tutte a Venezia); quattro del XVIII secolo (a Bergamo, Brescia, Cortona e Roma). L’opera ebbe grande successo oltre che a Brescia e Venezia, anche sul territorio milanese e quello veneto: si ha infatti notizia di contratti di vendita sottoscritti dal figlio di Agostino, Mario Gallo, con librai di Milano, Pavia, Bergamo, Bologna, Piacenza, Verona e Vicenza2». Nelle Giornate dell’agricoltura si trovano citazioni e riferimenti a tutti gli autori “canonici” della classicità greco-latina, assieme a quelli della tradizione medievale e della prima età moderna (Pier de’ Crescenzi su tutti, ma anche Arnaldo da Villanova, Dante, Petrarca e Boccaccio). In secondo luogo, l’opera del Gallo è l’unica ad essere tradotta, ancora nel Cinquecento, in una lingua diversa da quella d’origine (francese) e ad essere divulgata nella stessa Francia attraverso più edizioni consecutive.

Quanto la viticoltura andasse annoverata fra le attività principali dell’agricoltura è testimoniato dall’ampio spazio che le viene dedicato all’interno dell’opera del Gallo. Ben due “giornate”, infatti, la Seconda e la Terza, sono dedicate rispettivamente alla coltura delle viti e alla produzione e alla conservazione dei vini. All’interno della descrizione molto accurata della situazione bresciana, il Gallo introduce una novità di assoluto rilievo e cioè il tema della produzione e del consumo dei vini frizzanti, trattazione che verrà ripresa più avanti da Girolamo Conforti e da Giovan Battista Croce3: «A far perfetti questi vini che noi chiamiamo vini cifoli, o sforzati, per essere di uve nere, bisogna primamente, come son condotte, pestarle coi piedi nelle benaccie fin che sono bene pestate e po’ immastellarle più nette che si può (benché si possano torchiare anche quelle uve, ma meglio è pestarle, conciosia che viene fuori il vino migliore); facendo poi da bollir con l’acqua nella tina quel tino che resta nella benaccia, il quale resterà buono per la famiglia… vero è che a tramutarli di una, o di due volte mentre che bollono, e levar la feccia che si trova sul fondo, restano più amabili, che a star fin San Martino, e peggio (come la maggior parte fanno) fino al Marzo. Et questi vini restano piccanti per più mesi, e alquanto dolci quando le uve non siano mal mature, oltra che durano lungo tempo (come vi ho detto), e restano ben bianchi, essendo posti in vaselli netti4».

Nella Terza Giornata Agostino Gallo dà consigli sulle uve da piantare e del modo di farlo: «Lodo primamente che si piantino quelle che producono le uve cropelle, nere, morbide, per rendere più delle gentili, le quali stanno bene accompagnate con tutte le altre uve nere, e bianche. […] Poi sono mediocremente buone le vernacce nere, percioché non fallano a produr frutto assai. Ma il proprio loro è accompagnarle con le trebbiane bianche, o con le cropelle nere, perché altrimenti non farebbono vin saporito, né potente, e sarebbe anche carico di colore. Ancora sono buone per piantar le schiave nere grosse di grano, che fanno vino assai, benché sia debole e fumoso; ma migliora accompagnandolo con il cropello. Le quali si conservano molti mesi spiccandole per Luna vecchia, di mezzo giorno ardendo il sole, e piccandole non molto mature. Appresso lodo le uve marzemine, che fanno i graspi lunghi, e i grani grossi, per abondar di vino gentile, che tien dell’amabile, ma carico di colore… Parimenti è cosa utile a piantar delle voltoline, percioché oltra che producono in copia vino lodato da tutti per la bontà, e il bel colore, si può bever anco semplice, e accompagnato. Et queste viti sono chiamate voltoline, poiché il vino si volta più fiate all’anno parendo guasto, ma avvenga che in un dì, o dui, ritorni, e duri più a lungo di ogni altro5».

Tanto stimate quanto accurate sono poi le recensioni del bottigliere di papa Paolo III Farnese (1534-1559), Sante Lancerio: in venticinque anni egli ha modo di apprezzare numerosi vini che, secondo le stagioni, le ore del giorno e i numerosi impegni ufficiali e non, allietano la tavola del pontefice. I gusti del papa Farnese, che vive fino all’età di 82 anni, sono giunti a noi grazie al suo bottigliere, che ci ha lasciato gli appunti in cui descrive i “53 vini giudicati da Papa Paolo III e dal suo bottigliere Sante Lancerio6”. Come bottigliere di corte Sante Lancerio segue il papa in tutti i suoi viaggi, selezionando i vini da servire in tavola dopo averne accertato la qualità e si preoccupa di controllare tutte le bottiglie che nobili e potenti regalano al pontefice. I giudizi di Sante Lancerio sono netti, severi e rigorosi a partire da una prima suddivisione che rimarca la scala sociale di valore: da una parte i vini per “signori” e dall’altra quelli per “famigli”. Tutte le esperienze valutative confluiscono poi in una lettera, indirizzata al cardinale Guido Ascanio Sforza, della quale abbiamo testimonianza. Nella terminologia di Sante Lancerio, ricca e precisa, riconosciamo molti termini del gergo dei sommelier e degli enologi contemporanei. Per definire il gusto egli impiega parole come “tondo, grasso, asciutto, fumoso, possente, forte, maturo”. Per il colore utilizza “incerato, carico, verdeggiante, dorato” e così via. È sempre Sante Lancerio a testimoniarci che nel Rinascimento si comincia a manifestare, seppur sommariamente, la ricerca dei possibili abbinamenti tra vini e cibi. Nei menù si va a designare una progressione che va dai vini bianchi leggeri per gli inizi del pasto, ai vini forti o inebrianti per i dessert, passando attraverso i rossi degli arrosti.

Un altro testo fondamentale nella trattatistica enologica è quello scritto da Andrea Bacci, medico e naturalista, nipote di un ingegnere della Basilica di Loreto e discendente da parte di madre dei Paleologi, ultimi imperatori di Bisanzio: De naturali vinorum historia7. Pubblicato nel 1596, è suddiviso in sette libri scritti «in latino per sottolineare l’importanza del lavoro, nei quali passa in rassegna con rigoroso metodo scientifico, tutto lo scibile inerente alla vite e al vino a cominciare, nei 32 capitoli del primo libro, dalle conoscenze degli antichi che puntualmente, e con le opportune chiose, cita riportando autori, opere, titoli e paragrafi. Mette a confronto le loro esperienze con quelle del suo tempo sottolineando affinità o divergenze e aggiungendo personali considerazioni e commenti a proposito dei diversi argomenti che spaziano dalle varietà dei vini, ai tempi e modi di vendemmiare, dalle tecniche di vinificare e conservare i vini, ai vini “cotti” e crudi, alle “sostanze” dei vini e loro guastarsi, dall’aceto al recente uso delle bottiglie in vetro.

Nel secondo descrive i caratteri del vino disquisendo di quelli “caldi”, “freddi”, generosi o deboli, dolci e no, della loro “intima” sostanza, delle diversità di colore, sapore e odori, del significato di questi caratteri e della loro origine per spiegare la quale non trascura il ruolo del terreno e dell’ambiente in genere, l’influsso degli astri, della luna e dei fenomeni naturali o l’influenza di certe pratiche enologiche, come l’aggiunta di acqua e l’uso delle resine, dando un quadro articolato sia delle credenze che di quanto conosciuto circa il vino, nel ’500. Nel terzo libro, ricordandosi d’esser anche medico, tratta dei rapporti di questa bevanda con la salute. […] Di grande interesse è anche il quarto libro, De convivis antiquorum, in cui sulla base dei testi classici, analizza il modo di stare a tavola degli antichi e le regole per l’assegnazione dei posti, gli addobbi e le stoviglie, le qualifiche e le mansioni degli addetti al servizio di tavola, la successione delle vivande e quali di queste ancora si apprestavano al suo tempo diffondendosi in talvolta curiosi ma sempre di grande interesse. […] Ma è nel quinto e nel sesto libro che sfoggia le sue conoscenze enoiche quando con l’acribia di una guida, passa in rassegna, contrada per contrada, tutta l’Italia dei vini descrivendo le varietà di viti, il modo di allevarle, le tecniche di vinificazione e di conservazione dei vini, i prodotti che si ottengono e le loro caratteristiche. […] Al Bacci va dunque ascritto il merito di essere, pur se inascoltato, antesignano delle Denominazioni di Origine, “scoperte” dalla legislazione italiana alla fine degli anni ’60, con le quali prenderà a farsi strada il concetto che qualunque prodotto è figlio di un “suo” ambiente inteso, non solo in senso fisico ma, nell’insieme delle sue componenti compresa quella antropica fatta di uomini, di storia, di tradizioni e di cultura dal quale riceve quell’imprinting che lo rende unico e irripetibile8». Il settimo capitolo, infine, è dedicato ai vini di Germania, Francia e Spagna e alle bevande derivate dai cereali (birra e altri).

Poche sono le notizie biografiche accreditate per Francesco Scacchi, autore del De salubri Potu Dissertatio, (edizione originale Roma 1622 per Alexandrum Zannettum). Sembra essere certo comunque che egli nacque a Fabriano nel 1577, uno dei tredici figli di Durante Scacchi (1540-1620), noto chirurgo della scuola medica Preciana (Preci, PG) ma naturalizzato fabrianese nel 1568. Igienista piuttosto che medico, Francesco Scacchi scrisse il suo libro dedicandolo al Cardinale Ottavio Bandini (1558-1629)9.

Il libro nasce dall’esperienza e da una metodica indagine delle fonti e «ogni osservazione viene esaminata nella dottrina e nella casistica, e impone, per tradursi in precetto, una messa a fuoco. Vengono formulate le quaestiones che si trasformeranno in paragrafi e capitoli: se il vino sia nutriente o no; se le bevande in estate debbano assumersi tiepide, fredde o gelate; quale fra acqua e vino sia il liquido più salubre. Siccome per rispondervi bisogna compulsare le autorità, Ipocrate e Galeno, oltre ai letterati e ai filosofi latini, l’indagine si sposta nel passato, formulata in una nuova domanda: gli antichi preferivano bere freddo o caldo? Di problema in problema, la materia è sviscerata nelle sue articolazioni, tenendo conto che freddo e caldo non sono stati termici della materia, ma umori costitutivi della stessa, e quindi del corpo. […] Se la dottrina appare rigida, la materia dello studio e dell’osservazione è infinitamente varia, per diversità dei corpi e ancor più delle vigne, e delle Albane e dei Falerni che da essi derivano. La dissertazione sulla bevanda salutare è la somma delle osservazioni empiriche e dottrinali formulate come quesiti la cui risposta rientra in un prontuario per regolare regimi, complessioni e consuetudini10».

Un altro medico esperto di vitivinicoltura, operante a Carmagnola alla fine del Cinquecento, il quale commenta, a sua volta un medico, è il piemontese Francesco Gallina, che scrive alcune osservazioni e consigli pratici al Trattato della natura de cibi et del bere del sig. Baldassare Pisanelli, medico bolognese11: egli si sofferma sui caratteri organolettici dei vini piemontesi nuovi e vecchi, sui vini rossi e neri, sull’aroma dei vini, sul taglio del vino con l’acqua, sull’uso smodato del vino ed infine sull’agresto e sull’aceto12.

Così come è bolognese Vincenzo Tanara, autore di L’economia del cittadino in villa13 (1644): suddivisa in vari libri, l’opera viene concepita prendendo ispirazione dal suo soggiorno rurale e dalla conduzione pratica della sua tenuta. L’economia è un testo importante, perché ci racconta una nuova visione dell’agricoltura non più votata alla sussistenza, ma alle esigenze di mercato e ai calcoli di profitto. Particolarmente interessanti si rilevano anche gli incisi e i commenti sulle ricette: espliciti e diretti, dettati dalle personali predilezioni gastronomiche del marchese e dalle sue funzioni di buon padre di famiglia. Fra le citazioni riportate, dal Testamento “porcelli” alla preparazione di pasticci e salse, vogliamo segnalare una nota di “cronaca rosa” sul ruolo ricoperto dalle dame in certi banchetti dell’epoca. Il Tanara stabilisce, al pari dei suoi predecessori, sulla scia di quanto scrive Pier de’ Crescenzi, a sua volta debitore dei classici latini, una netta distinzione tra il vigneto di collina, dove il vino è di migliore qualità, e il vigneto di pianura, dove prevale la quantità: «“Bacco ama i colli” ribadisce Tanara a metà del Seicento, mentre Croce inseriva il legame tra sito e qualità dei vini nel titolo stesso del suo manuale di vinificazione postulando l’eccellenza dei vini “che nella Montagna di Torino si fanno”. […] Sulla strategia di scelta dei tipi d’uva, i testi seicenteschi di Croce e di Tanara divergono notevolmente. Il bolognese Tanara, dal canto suo, dà un elenco dei buoni vini che ricorda solamente in parte quello del Crescenzi: l’albana, ad esempio, rimane il “re” dell’uva bianca e fornisce “un vino delicato”. Ma nella Bologna del Seicento, stando all’Economia del cittadino in villa, la ricerca della quantità era lo scopo principale. Si otteneva più vino aggiungendo acqua al mosto14».

Di diverso parere sull’aggiunta dell’acqua al mosto, anche se il suo testo è scritto più di quaranta anni prima e sicuramente non era conosciuto dal Tanara, e piuttosto originale nella trattazione enologica, è il toscano Giovan Vettorio Soderini, che ospita nel suo scritto15 un testo del Davanzati, edito nel 1600 e ristampato nel 1610: «La pigiatura “in logge aperte al primo piano delle case della villa […] avendo sotto questo luogo accomodato la cantina” in modo che il mosto pigiato scenda nei tini sottostanti attraverso un “cannone di legno” o una “calza di cuoio”; l’uso frequente di uno “instrumento in foggia di una vanghetta leggiera e sottile, che rada bene”, per tagliuzzare gli acini e i raspi durante la pigiatura; l’aggiunta di acqua nel tino prima della pigiatura e non al mosto o al torchiato; la nuova invenzione venuta da Città di Castello mettere “l’uva spicciolata granello a granello”, cioè soltanto gli acini in una botte “puntellata” e chiusa ermeticamente per una bollitura di quaranta giorni; l’addolcimento delle uve raccolte quindici giorni sulla paglia al sole o “sopra i tegoli al sole, sicché scotti” oppure in cesti di vimini, da cui raccogliere il mosto ottenuto con la rottura degli acini con “bacchette”; il ricorso alla non bollitura del mosto messo in una botte calata nell’acqua del pozzo per qualche mese; lo schiarimento del vino torbido con la posa di trucioli di legno di nocciolo per quaranta giorni; la ricetta del mosto fresco bollito con la farina e spezie come cibo prelibato, la maturazione del grappolo d’uva “in un fiasco spogliato della veste”; l’acconciatura del vino con pece greca, o con allume, calcina e zolfo16».

Un ultimo accenno sulla produzione letteraria seicentesca del mondo vinicolo deve essere dedicato a un libro, assai raro e ristampato di recente17, scritto da Giovanni Flavio Bruno, autore di cui si sa pochissimo, che viene pubblicato a Napoli nel 1567 e conta circa 183 edizioni sino al 1593. L’unica edizione disponibile è quella curata nel 1591 da Giuseppe Cacchi a Napoli. Il libro è una piccola trattatistica sul vino e sull’aceto: novanta capitoli per 93 pagine coprono il tema del vino, mentre venti capitoli per 23 pagine si occupano dell’aceto. Il trattato di Giovanni Flavio Bruno si colloca, come altri testi della sua epoca, a metà tra consigli medici ed enologici, non discostandosi sia dalla consolidata tradizione medica ippocratico-galenica, sia dalla tradizione enologica latina sino a quel tempo tramandata. Quasi tutti i capitoli dedicati al vino contengono consigli sulla sua trasformazione, manutenzione e salvaguardia, non sempre in termini corretti: “per fare un vino vendereccio” (cap. 8); “per fare un vino di famiglia” (cap.9); “per far vino a forza” (cap.10); “per fare una sorte di vino nelle case, che serve per otto mesi, è bonissimo, e di gran sparagno…” (cap. 11); “per fare che un vino nuovo diventi come fusse vecchio” (cap. 17); “a far di vino negro bianco, & di bianco rosso” (cap. 18); “a dar odor di moscatello al vino…” (cap. 19); “a fare chiaro il mosto in 24 hore” (cap. 23), e via dicendo. Sembra che il libello di Bruno sia costruito in modo tale da poter rispondere sia ad un uso prettamente casalingo del vino, sia ad un uso commerciale, spiegandone e spingendolo a diverse sorti di contraffazione. Di qui, probabilmente, le ripetute ristampe del testo e il successo in chiave locale.

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1J.-L. Gaulin, Trattati di agronomia e innovazione agricola, in Ph. Braunstein, L. Molà (a cura di), Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. 3, Produzione e tecniche, Fondazione Cassamarca-A. Colla, Treviso-Costabissara 2007, p. 149; Su Columella, fonte di Della Cornia, cfr. J.-L. Gaulin, Viticulture et vinification dans l’agronomie italienne (XIIe-XVe siècle), in R. Leron, La viticulture et la vinification en Europe occidentale, au Moyen Âge et à l’Epoque moderne, Actes des onzièmes journées Internationales d’Histoire de Flaran, septembre 1989, Auch 1991, pp. 93- 118, nota 35. Capitolo terzo 179

2 E. Ferraglio, Il vino nella tradizione agronomica rinascimentale, in La civiltà del vino.. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento (Atti del convegno, Monticelli Brusati – Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001)
Archetti, Gabriele [Publ.]. – Brescia (2003)., p. 718

3 Ivi, p. 719

4 A. Gallo, Le venti giornate dell’Agricoltura e dei piaceri della villa, a cura di L. Crosato Larcher, Canova, Treviso 2003.

5 Ivi, Terza giornata. Sulla vite, pp. 88-89

6 Sante Lancerio, I vini d’Italia. Giudicati da papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio, La Conchiglia, Capri 2004 (ed. orig. metà 1500)..

7 A. Bacci, De naturali vinorum historia de vinis Italiae et de conuiuijs antiquorum libri septem Andreae Baccii Elpidiani medici atque philosophi ciuis Romani accessit de factitiis, ac ceruisiis, deque Rheni, Galliæ, Hispaniæ et de totius Europæ vinis et de omni vinorum usu compendiaria tractatio, ex officina Nicholai Mutij, Roma 1596. Edizione consultata: A. Bacci, De naturali vinorum historia, trad. di M. Corino, Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba, Grinzane Cavour (Cn) 1992

8 E. Franca, Andrea Bacci all’origine dell’enologia, in Andrea Bacci. La figura e l’opera, atti della giornata di studi, Sant’Elpidio a Mare, 25 novembre 2000, A. Livi, Fermo 2001, pp. 87-90.

9 A. Manni, F. Sbaffi, La storia dello spumante per la città, in «L’azione», Fabriano, 11 novembre 2000, ora in http://www.verdicchiodimatelicadoc.it/scacchi.htm.

10 A. Capatti, Dolce Piccante, Introduzione a F. Scacchi, De salubri potu dissertatio, in Id., Del bere sano, Fondazione Cassa di risparmio di Fabriano e Cupramontana-Zazzera, Lodi 2000

11 B. Pisanelli, Trattato della natura de cibi et del bere [ecc.], G.B. Porta, Venezia 1584. Il testo originale è in http://books.google.it. Per un’edizione recente: Id., Trattato de’ cibi et del bere [ecc.], Arktos, Carmagnola (To) 2000.

12 Cfr. A.N. Patrone, L’enologia nelle considerazioni di un medico piemontese del Cinquecento: Francesco Gallina, in Vigne e vini nel Piemonte moderno, cit., pp. 91-108

13 V. Tanara, L’economia del cittadino in villa, G. Monti, Bologna 1644, ora in http:// archive.org/details/leconomiadelcit00curtgoog.

14 J.-L. Gaulin, Tipologia e qualità dei vini in alcuni trattati di agronomia italiana (sec XIV – XVII), in Dalla vite al vino, cit., pp. 65-67

16 Trattato della coltiuazione delle viti, e del frutto che se ne può cavare, del s. Gioan Vettorio Soderini gentil’huomo fiorentino, E la Coltiuazione toscana delle viti, e d’alcuni arbori, del s. Bernardo Davanzati Bostichi gentil’huomo fiorentino, Aggiuntavi la Difesa del popone dell’eccellentiss. dottore sig. Lionardo Giachini, in Firenze, per Filippo Giunti, 1600
S. Pronti, Storia e cultura del vino. Fonti inedite e casi esemplari sul vino piacentino dall’antichità ad oggi, Tip.le.co., Piacenza 2008, p. 211.

17 Giovanni Flavio Bruno, Trattato del vino e aceto et delli loro effetti et virtù. Opera non meno utile che necessaria à qual si voglia persona, raccolto da diversi Scrittori così antichi come moderni dal S. Gio.Flavio Bruno, professor dell’arti, e scienze, con licenza de’ Superiori, in Napoli, Apresso Giuseppe Cacchj, 1591, rist. anastatica, Edizioni scientifiche italiane, Napoli-Roma 1999

Aforismario vinoso in una tranquilla giornata di caldo

Di Damiano Luchetti – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1151049

Nessun vignaiolo è completamente infelice del fallimento del vino del suo miglior amico (vignaiolo) (quasi cit.)

La chiave del successo di un vino naturale è quella di avere una acidità volatile così al limite da consentire una bocciatura dignitosa da parte della commissione d.o.c o d.o.c.g. Del tipo: “è bravo, ma non si impegna”; oppure: “è bravo, ma il classico non fa per lui. Valuterei eventualmente un tecnico”.

La chiave del successo di un vino bio è che nessuno se ne accorga.

Un vino da tavola, in Italia, può essere un vino da tavolata o un vino da banchetto regale, ma anche un vino mediocre o solo discreto, oppure abbastanza buono.

Un vino d.o.c., in Italia, può essere un vino da tavolata o un vino da banchetto regale, ma anche un vino mediocre o solo discreto, oppure abbastanza buono.

Un vino d.o.c.g., in Italia, può essere un vino da tavolata o un vino da banchetto regale, ma anche un vino mediocre o solo discreto, oppure abbastanza buono.

In tutte le situazioni sopradescritte il prezzo è a prescindere.

Il rapporto qualità / prezzo di un vino è inversamente proporzionale al rapporto prezzo / qualità

Se il prezzo di un vino sta alla sua qualità così come la sua qualità sta al suo prezzo, ne consegue che fa sempre 1 e questo non è bello

Allo stesso modo, il prezzo del vino / 0 di qualità non è possibile così come la qualità / 0 di prezzo di un vino non è possibile. Ne consegue che un vino di solo prezzo annichilisce la sua qualità, ma anche che un vino di qualità senza prezzo potrebbe non essere percepito come tale (ad eccezione della Liguria e della Scozia)

Gian Luca Colombo alle prese con una rovente milonga

Gian Luca, oltre a produrre vino https://www.segnidilanga.it/ (e piuttosto bene), ogni tanto interviene nei pubblici dibattiti (prendendosi ortaggi figurati). Poco tempo fa si era espresso sul clima, sulla vitivinicoltura, sulle sfide che aspettano i viticoltori e così via. Ci sono tornato su con una bella intervista.

Vigna di Roddi dove Gian Luca produce Nebbiolo e Pelaverga
  • Buongiorno Gian Luca, partiamo subito dalla domanda che è all’origine di questa intervista: in un tuo intervento in rete sul cambiamento climatico e il surriscaldamento del pianeta alcuni utenti ti hanno attaccato dicendo che la viticoltura è finita, che dovresti cambiare colture e via dicendo.
  • Buongiorno a te. Sul fatto che il riscaldamento globale ci sia e sia pienamente individuabile non vi è alcun dubbio.  Collaboro con i ragazzi di “Dati Meteo Asti” https://datimeteoasti.it/, Luca Leucci e Paolo Matteo Faggella che, pro bono, stanno facendo analisi metereologiche continue e coi quali abbiamo installato stazioni di monitoraggio nelle mie vigne per valutare le condizioni atmosferiche e poter prendere decisioni corrette in campagna: “Sulle Langhe l’inverno 2021-22 è stato quasi ovunque il 2° più mite mai registrato, dietro solo al recente 2019-20. Prendendo come riferimento la località di Somano (CN, 626 m), la stagione ha fatto registrare un’anomalia di +3,0°C sulla media 1991-2020: la temperatura media di 5,9°C è stata inferiore di appena 0,3°C rispetto al record del 2019-20 (6,2°C). Sulle Langhe febbraio è stato caratterizzato da una temperatura media di oltre 7°C, valore quasi 4°C oltre la media 1991-2020 e tipico del mese di marzo, tanto che sulle Langhe la primavera è arrivata con un mese di anticipo e non si sono fatte attendere le prime fioriture precoci, specie di mandorli ed albicocchi” (dal sito datimeteoasti). Le piante, soprattutto quelle nuove, fanno fatica a crescere nell’apparato radicale. Questo significa lavorare su portinnesti che vadano in profondità o che siano poco esigenti in acqua. Pensa che quest’anno, da gennaio, abbiamo avuto una media di piovosità di 130 mm di acqua a fronte di 800 mm che è la media storica. Per tornare alla tua domanda iniziale: il cambiamento climatico è evidente e radicale, ma di qui a dire che non abbiamo strumenti o che dobbiamo piantare banane in Langa ce ne passa e di molto! Mi sembrano posizioni puerili e populistiche!
Gian Luca Colombo
Azienda Agricola Segni di Langa
Località Ravinali 25
12060 Roddi (Cn)
tel. +393803945151
http://www.segnidilanga.it
  • Ho notato che le anomalie climatiche riguardano anche altri fenomeni, come le gelate primaverili che giungono improvvise dopo la germogliatura.
  • E’ così: a marzo 2022 abbassamenti termici importanti. Le viti hanno germogliato ma non si sono sviluppate e per ben due settimane le noctue[1] hanno mangiato che era un gran piacere. Il 6,7 aprile nuova gelata sui germogli lunghi (- 7 sottozero). Alle cinque di mattino sono andato a dare la valeriana che però permette un rialzo di soli tre gradi. Quello che dico è che tutto questo deve essere gestito: in questo momento è essenziale innanzitutto ripensare la gestione dei vigneti, adattandosi alle condizioni climatiche del momento e gestendo di conseguenza le lavorazioni. Ad esempio: sfemminellatura sì o no, e se sì come farla. Cimatura sì o no e se sì come e quanto. Potatura invernale (rischio gelate in molte zone) sì o no e quando. E così via
  •  Questo cambia in maniera significativa anche il concetto di cru
  • Anche questo sta diventando evidente: i sud pieni o sud-ovest magari non rispondono più ai criteri di qualità che potevano avere un tempo, mentre, ad esempio, un est pieno a 380 metri sì. Anche su questo bisognerebbe avere un approccio più laico e sperimentale.
Sostanza organica e biodiversità colturale
  • Che tipo di lavorazioni esegui sul terreno?
  • Sostanzialmente lavorazioni del terreno per limitare la risalita capillare dell’acqua e per far entrare in profondità quella piovana (infatti gli eventi piovosi sono sempre più rari e violenti, grandine compresa). Quest’ anno, ad esempio, ho lavorato i terreni in uno stile che potremmo chiamare “isolano” (Sicilia e Sardegna), al fine di non perdere troppa acqua dal terreno. Ad esempio non ho usato l’inerbimento intra filare che va in competizione con le viti. E mi sono pentito di non aver fatto i nuovi impianti adottando l’alberello. La difesa del vigneto, anche in biologico, consente l’utilizzo di elementi come le alghe che limitano l’evapotraspirazione delle piante riducendo lo stress, etc.etc. Per dirla tutta, gli agronomi bravi servono e fanno la differenza (io lavoro con Roberto Abate, poi c’è Maurizio Gily etc. etc.) e forse sono ancora più importanti degli enologi (poi non sono mica tuttologo – e ride)
  • Quindi ritieni che l’approccio aziendale debba essere in qualche modo funzionale al recupero di un rapporto di interscambio con la natura circostante?
  • Un’azienda vitivinicola non ha nulla della circolarità essenziale per ridurre inquinamenti e sprechi, non aiuta la riduzione di CO2. Prende molto e poco dà alla natura. Ed è per questo che ritengo che noi tutti viticoltori dovremmo rivedere il concetto aziendale, non dico che sia essenziale il passaggio in biodinamica, credo però che la biodinamica dia una montagna di indicazioni per migliorare tutti gli aspetti dell’azienda agricola.
  • Come sei arrivato alla biodinamica?
  • Inizialmente non la consideravo proprio, anzi la disprezzavo quasi. Non capivo tutta la parte che si riferiva agli elementi spirituali. Poi ho fatto degli assaggi: i migliori e i peggiori vini che io abbia mai assaggiato sono fatti in biodinamica e ho pensato che se si poteva arrivare a certi risultati di grandezza ci doveva essere qualcosa di buono, di molto buono. Il lavoro essenziale è basato sull’incremento della sostanza organica nel terreno che svolge il ruolo di spugna nei confronti dell’acqua, ne fa assorbire molta di più al terreno, la rende più disponibile alle piante e per più tempo, limita le erosioni e i ruscellamenti che generano frane. Il terreno, come dice il mio agronomo, costituisce le fondamenta della casa viticola: se non funziona quello crolla l’intero edificio. Importante sarebbe anche il reinserimento degli animali, per le ragioni di cui sopra ma anche per il ritorno al movimento in azienda, che manca se lavori solo con le piante (i loro prodotti di scarto sono oro per l’azienda). E poi l’introduzione di boschi (in Langa non esistono quasi più): nei boschi molte specie utili trovano il loro habitat e ci aiutano a limitare le infestazioni di insetti; i boschi mitigano le temperature nelle vallate dove sono presenti. Lavorano sul microclima, assorbono tonnellate di CO2 etc. E ancora inserire alberi da frutto (storicamente erano presenti in tutti i vigneti), piante officinali etc. Per aumentare la presenza dei pronubi, insetti, uccelli etc. Per ricreare la complessità che è presente in natura e che noi abbiamo semplificato, con le conseguenze che vediamo.
  • Un’ultima domanda prima di salutarci. Credi che ci sia interesse per la biodinamica e per una gestione diversa del vigneto e della vitivinicoltura?
  • Guarda, la biodinamica dà risposte, non tutte naturalmente, molto razionali. Nelle nuove generazioni c’è sicuramente moto interesse (abbiamo tenuto un corso a Barolo dove c’è stato un overbooking e la stragrande maggioranza dei partecipanti erano viticoltori). Poi tornano a casa e i vecchi gli chiedono se sono diventati matti (e ride). Credo che al momento siamo solo in cinque, a Barolo, a condurre la vigna e la cantina con metodo biodinamico. In futuro si vedrà.

[1] Nottua della Vite (Noctua fimbriata) è diffusa in tutta Europa e in Nord Africa e attacca numerose piante: erbacee, da foglia e vite. In primavera le noctue riprendono l’attività alimentare a spese della vegetazione e delle gemme della vite.

Le foto sono di Gian Luca Colombo