L’immediato e l’emotivo: il culto del gastro-brand nella società come spettacolo. Di Nicola Perullo

La foto è di Nicola Perullo

Nel film The Menu (2022, regia di Mark Mylod) si mette in scena in modo piuttosto feroce una certa immagine contemporanea della cucina d’autore, altrimenti detta di “ricerca” o “avanguardia” o genericamente “creativa” (questi aggettivi sono spesso ma erroneamente usati nel linguaggio fagocitante dell’informazione come sinonimi). E sono rappresentate con notevole enfasi le reazioni e i comportamenti suscitati da questa cucina. Naturalmente, questo film ha prodotto immediati giudizi polarizzati. Non intendo qui esprimere alcun giudizio sul film, né entrerò in una sua analisi complessiva. Piuttosto, l’opera mi fornisce lo spunto per elaborare alcune riflessioni generali. The Menu, intanto, mi è interessato perché non è un film sulla cucina. È una metacritica di un certo modo di intendere la critica. In altri termini, decostruisce una determinata modalità di approccio alla creazione artistica e alla fruizione estetica in generale; ma questa modalità oggi si presenta socialmente con evidenza nell’ambito del gastronomico. In questo senso, il film risuona con molti punti che ho discusso nel mio libro Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica (2020).

Qual è il punto? Si tratta di evidenziare lo stretto rapporto tra autorialità e immediatezza, tanto nel produrre che nel recepire. Si tratta di evidenziare, altrimenti detto, come la categoria del “nuovo” sia oggi il valore necessario per suscitare immediate reazioni emotive positive; il culto sociale che si alimenta di se stesso e che, per questo, si fagocita continuamente. Pensiamo alla politica, produttrice continua di novità tanto dirompenti quanto effimere; si pensi ai “cambiamenti epocali”, alle notizie da prima, seconda, terza e quarta pagina, completamente dimenticate dopo poco. Si pensi dunque agli chef “nuovi” e ai loro ristoranti. L’immediatezza nel creare corrisponde all’immediatezza nel recepire, nell’accettare: il culto dell’autore è diventato il culto dell’emozione. Ma le emozioni così repentinamente emerse svaniscono altrettanto facilmente.

Che cosa significa oggi “ricerca”, nello specifico campo della cucina ma, più in generale, nel campo dell’opera d’arte se è vero che la cucina può legittimamente essere considerata arte (cfr. Perullo 2013)? E cosa significano oggi le nozioni di “creatività” e di “avanguardia”? E soprattutto: fino a che punto, oggi, la presunzione di una “assoluta” libertà creativa del gesto artistico può essere sbattuta in faccia al fruitore, che sia il cliente di un ristorante o lo spettatore di un film? Ho sottolineato la dimensione della contemporaneità in tali domande perché il tema generale è invero molto antico: la problematicità del rapporto tra produzione e fruizione risale all’origine della creazione di opere per un pubblico, e si specifica poi con l’età moderna in rapporto a un nuovo tipo di società, periodo nel quale nasce anche l’estetica (cfr. Agamben 2022). Le considerazioni filosofiche generali devono riflettere, in modo concreto e specifico, ciò che oggi accade. Innanzitutto, dunque, il film The Menu descrive la figura dello chef-icona, dello chef come brand, rappresentando le diverse reazioni alla creatività assoluta dell’icona e del brand in quanto tale: dalla critica gastronomica di una nota rivista fino all’amatore entusiasta, dagli arricchiti fino ai borghesi, tutti (con la sola eccezione dell’intrusa, la “troll” della situazione e personaggio chiave del film, che però qui non prenderemo in conto) accetteranno, seppure con sfumature diverse, i gesti creativi, cioè autoriali-autoritativi e brandizzati, del cuoco, almeno fino a quando non prenderanno una piega che esula decisamente dal dominio gastronomico, giustificandoli innanzitutto in quanto pura espressione di un brand. Di fronte alla vecchia questione filosofica: “Dio vuole una cosa perché è buona, o una cosa è buona perché Dio la vuole?” la risposta offerta dalla società secolarizzata dell’immediato emotivo è sicuramente la seconda.

La foto è di Nicola Perullo

Questa situazione mette a sua volta in evidenza un altro punto: l’idea della libertà creativa connessa a una “genialità” che diviene marchio, brand, dunque firma riconoscibile, è oggi totalmente funzionale all’industria culturale capitalistica e alle sue logiche di commercio e mercato. In altri termini, ciò che accade è che il sistema non ha più alcun bisogno di “controllare” l’opera (come è invece accaduto nei sistemi della prima modernità, con le censure religiose e poi con le ideologie politiche totalitarie) affinché essa risulti consona, tanto accettabile all’autorità quanto poi gradita al pubblico, dunque vendibile. Ora la vendibilità è l’immagine stessa dell’opera, senza contenuto, perché l’opera, totalmente identificata con la sua firma, viene accettata in quanto brand. Lavorano su questo meccanismo coloro che creano l’opera (non solo il maker, lo chef in questo caso, ma tutto l’indotto: uffici stampa, creatori digitali, comunicatori di varia declinazione) affinché vi sia la fruibilità di un pubblico accettante. Un’accettazione che, in linea ben più che solo teorica, prescinde dunque da ogni considerazione sui contenuti dell’opera. O meglio: la valutazione, come vediamo in The Menu, avviene ex post, a partire dall’accettazione a prescindere: diviene un “giustificazionismo” generalizzato. In altri termini: dato che il brand è autoritativamente imposto, dato che l’informazione lo diffonde e lo rende “vero”, segue che vi sia del merito. Dunque, spetterà al fruitore trovarlo per convalidare la comprensione dell’opera. Credo che questo modello sia stato esemplarmente riassunto dall’idea che oggi circola, cioè che la vera creatività si trovi più spesso nella pubblicità e nel marketing di prodotti che non nel prodotto stesso. Del resto, alcuni anni fa, Jeff Koons, rese quella celebre dichiarazione secondo la quale l’arte non consiste nel fare un’opera ma nel venderla. Analogamente, nel cinema molti critici oggi sono impegnati a giustificare il merito artistico del brand che riempie le sale (pensiamo alla Marvel) proprio in quanto le riempie. Un’altra riflessione si presenta, dunque, quando l’informazione ci propone enfaticamente i risultati della ricerca creativa di molti chef e dei loro ristoranti: dove si investono oggi le maggiori e migliori energie, nel caso specifico in un lavoro sulla cucina o sulla sua comunicazione e promozione?

Torniamo al mito della presunta libertà assoluta di creazione. Se guardiamo attentamente alle politiche messe in atto dalle grandi piattaforme come Netflix, Amazon Prime o consimili, ma più in generale all’industria culturale (a cui anche la cucina appartiene pienamente) vediamo una situazione interessante: il prodotto “creativo”, libero, “avanguardistico” di autori iconici/brand trova sempre più spazio anche sul piano della stessa produzione (pensiamo a film come Roma di Cuarón, The Irishman di Scorsese, Bardo di Iñárritu, ma la lista è enorme e in espansione). L’industria culturale non sta affatto annullando quanto fagocitando l’arthouse, lasciandolo libero come pura firma, come pura forma: ciò vale per il cinema e per l’editoria, la musica e ovviamente i ristoranti. Attenzione, però: il “prodotto artistico” non è però considerato opportuno e accettato soltanto perché consente di continuare a lavorare sui prodotti di massa, i Blockbuster progettati a tavolino. Non è cioè solo questione del fatto – innegabile – che lo stesso proprietario del ristorante stile The Menu possa anche marchiare, brandizzare, pizzerie e paninoteche. È qualcosa di ancora più sottile e insidioso: in quanto è apprezzato come brand, l’arthouse stesso è totalmente parte del medesimo meccanismo della produzionecommerciale propria dei Blockbuster e delle pizzerie. Si tratta di creare icone spettacolari: tanto basta. Il brand è lo spettacolo, l’esperienza nuova che si nutre di sé, indipendentemente da ciò che rappresenta e, nel caso del cibo, da ciò che propone. In The Menu, la figura del “food enthusiast”, il gastrofilo è colui che risparmia denaro per permettersi queste esperienze. Il fan – che non è né il critico né l’arricchito, seppure anche queste figure reagiscano in modi simili – incarna al meglio questo processo di immediatezza emotiva che diviene giustificazione cognitiva: ogni creazione dello chef-brand viene accettata e motivata in quanto proviene da lui. La “libertà creativa” è il dogma, il sacro secolarizzato del sociale spettacolarizzato.

Si scioglie così questo apparente paradosso: nella società dello spettacolo c’è uno spazio preciso, sempre più ampio, riservato alla libertà creativa “assoluta” del gesto artistico: uno spazio curato, organizzato e capitalizzato dallo stesso mainstream contro il quale apparentemente si indirizzerebbe questa presunta “pura” ricerca che si definisce ancora, spudoratamente, avanguardia. La definizione è spudorata perché qui non si sta in alcun avamposto: si è ben saldi e ben piantati (al di là delle vicende individuali anche drammatiche, come ancora una volta mostra bene The Menu) nella bulimia del sistema produttivo. Quello che voglio sottolineare qui è come a tale bulimia produttiva debba corrispondere una bulimia fruitiva; all’iperproduzione corrisponde un’iperstimolazione, più precisamente una volontà continua di “emozionare” (tutti vogliono regalare emozioni; sentiamo continuamente gli chef sostenere che il loro ruolo è “dare emozioni”). Ora, il meccanismo della libertà creativa assoluta come brand e questo bombardamento emotivo, superficiale e alla fine – in modo apparentemente paradossale – anestetizzante, vanno insieme: la prima serve proprio per suscitare apprezzamento emotivo immediato, uno shock funzionale alla mancanza di stratificazione e memoria. Immediatezza e impazienza, produzione di un prêt-à-porter creativo/autoriale. Si pensi a ulteriori tre casi: un film come Babylon di Damien Chazelle, il ristorante Ultraviolet di Paul Pairet o la moda del vino naturale come fenomeno “hipster” sono movimenti che nascono dentro tale meccanismo. Anarchia della creazione produttiva = immediatezza fruitiva emotiva. Di fronte a esse, la narrazione come brand sopravviene: dato che la risposta da dare è immediata, o si rifiuta o si accetta subito. Dato che, nel primo caso, si rischia di non far parte dello spirito del tempo, dell’interesse, allora si opterà per l’accettazione: vedere tutto, ingoiare tutto, una narrazione che sopravviene all’esperienza metabolica della digestione lenta e appassionata. Se Peynaud ne Il gusto del vino teorizzava che il gusto deve adattarsi e adeguarsi alle regole dell’enologia tecnologica, ora il gusto si deve adattare alla pura libertà delle visioni del maker, indipendentemente dal comprenderle o no: il gusto è un equalizzatore di brand. Il feticcio del brand, il brand che diviene l’esperienza stessa. Il feticcio della ricerca assoluta e dell’esperienza assoluta.

Non sto qui suggerendo che un film come Babylon o un ristorante come quello rappresentato in The Menu non possano offrire un’esperienza sensibile appagante, coinvolgente, emozionante, stupefacente o anche solo divertente. Il punto che qui sollevo è diverso: queste opere sono realizzate e prodotte secondo un modello che, basandosi sul criterio dell’accettazione iconica, autoriale-autoritativa prima descritta, le sottrae del tutto alla metabolizzazione, cioè al tempo. Il tempo inteso non come istantaneità della reazione emotiva, ma come durata, passione, memoria e sedimento (cf. Perullo 2013): ciò in cui dovrebbe radicarsi un’opera per corrispondere al farsi di una sensibilità che accomuna. Far attecchire l’opera nell’ecologia, significa realizzare una corrispondenza tra opera e gusto. Questo tipo di lavoro, non la brandizzazione volatile dell’autore dell’opera proprio del marketing del consumismo capitalistico, è stato quello proprio anche delle avanguardie. Ma questo lavoro è un compito senza fine: si sviluppa come densità e processo, sempre in risonanza. Ho provato a suggerire l’ipotesi per questo tipo di lavoro in alcuni miei libri precedenti (cfr. in particolare Perullo 2021) attraverso l’idea di gusto come compito. Percepire è un compito che non si dà mai una volta per tutte, ma si realizza nel processo – perciò chiede attenzione, attenzione e ancora attenzione, non istantanea accettazione né rifiuto, ma tempo. Allo stesso modo, la creazione è compito: giammai libertà assoluta, sciolta da vincoli, ma recupero, relazione, comunanza. La creazione e la ricezione sono libertà dipendenti, cioè vincolate.

La foto è di Nicola Perullo

L’analisi sopra proposta potrebbe anche intendersi anche come critica alla libertà del gusto dei vini naturali, una posizione che si potrebbe apparentemente ascrivere al progetto presentato in Epistenologia? No, ma certo ne costituisce una necessaria precisazione. Da un lato, infatti, non si è mai sostenuto che l’artefatto “naturale” sia di per sé gustativamente apprezzabile in quanto tale: altrimenti, si ricadrebbe nell’obiezione sopra esposta, cioè quella della sacralizzazione del brand come tale, della narrazione che riduce a sé ogni esperienza. Si percepisce sempre dentro una rete ecologica, cioè di relazioni vincolanti, di sedimenti movibili; invece, il mito della presunta libertà creativa, il prêt-à-porter autoriale, allena percezioni istantanee e impazienti, tanto di giudicare quanto di venire stimolate. Dall’altro lato, però, essere consapevoli dei vincoli relazionali non significa lavorare su regole predeterminate e “oggettive”. Epistenologia ha di mira quest’ultimo feticcio, che vale anche per l’arthouse brandizzata e sapientemente “comunicata” nel cinema, nella musica, nella ristorazione, nell’industria culturale in generale. Quindi: né libertà assoluta né regole oggettive, ma compito in quanto continua attenzione. Il gusto è relazione e resistenza: negoziazione, dialogo, costruzione di uno spazio comune. Si tratta di non accettare passivamente: né le regole del mercato mainstream né il brand apparentemente fuori mercato del mercato più sofisticato, quello che mette precisamente in scena il fan gastrofilo nel film The Menu. Si tratta di coltivare meno emozioni e più passioni; educare il percepire per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che al contempo si sedimenta e si ricrea, costantemente.

Come ci ha indicato bene Guy Debord, viviamo nella società dello spettacolo, cioè nella società come spettacolo. Lo spettacolo è il conformismo. Ha scritto Maurizio Iacono:

Nel secolo scorso il conformismo era contrassegnato dall’uso delle camicie tutte dello stesso colore. Oggi avviene il contrario. Il conformismo si presenta con le camicie multicolori, i tatuaggi, l’esibizione sotto le false spoglie della trasgressione. Si era conformisti come il Marcello Clerici del romanzo di Alberto Moravia e del film di Bernardo Bertolucci. Si è conformisti così come ce lo hanno descritto Sandro Luporini e Giorgio Gaber. Questo serve allo spettacolo delle merci e questo si fa in un contesto in cui, immersi come siamo in un presente-eterno e in assenza di qualunque desiderio di un futuro che non sia la falsa speranza individualistica di soddisfare i propri bisogni, la stessa contrapposizione tra destra e sinistra è diventata ormai solo parte della stessa rappresentazione. Questo significa arrendersi? No! Significa soltanto togliersi i prosciutti dagli occhi. Ciò fatto, il resto verrà.1

La società come spettacolo. Ma – come ha da parte sua mostrato bene Calasso (cfr. Calasso 2017) la società è oggi l’unica religione. Quindi lo spettacolo è l’unica religione. Si comprende così il nesso tra immediatezza della produzione, mito della libertà assoluta, generazione continua di brand come “novità”, culto dell’emozione. Inventarsi sempre qualcosa di nuovo per girare a vuoto, ideologizzare l“immersività” come esistesse uno stato di emersione. L’immersività ideologizzata è figlia del culto dell’immediatezza emotiva e produce l’opposto di quanto millanta: essa distrae. Ma per radicare l’opera nell’ecologia di un gusto che si realizza c’è bisogno di continua, infinita, attenzione. Un’attenzione totale.

Il film The Menu ci fa riflettere su questioni essenziali, perché un ristorante come quello rappresentato può nascere solo dentro il sistema dell’informazione e dell’immediato emotivo, nell’età dell’“innominabile attuale” che stiamo attraversando. Inventarsi sempre “nuovi” format di ristoranti perché lo scopo è “dare emozioni”. Però, anticipare quotidianamente il futuro significa diventare professionisti di “novità”; cioè, significa trovarsi da subito già nel trapassato senza essersene consapevoli. Vivendo un tempo accelerato e immediato, ne veniamo ipso facto fagocitati, subendolo passivamente. E The Menu gioca esplicitamente anche su questo fatto perché – come sa bene chi conosce l’argomento specifico di questo tipo di cucina – tutte le novità sono refrain già consunti (il creare un piatto come se fosse un paesaggio, il pane come essenza, il cheeseburger come retorica del non-nuovo, della tradizione per eccellenza, ma anche il piatto che il fan, sfidato dallo chef, realizza, venendone dileggiato. I suoi abbinamenti sono “davvero rivoluzionari”, gli dice sarcastico lo chef). Abbiamo ancora davvero bisogno di spettacolo, di cinema, ristoranti, di “evasione” (ma da cosa dovremmo evadere?). Abbiamo davvero ancora bisogno di “fare nuove esperienze” per alimentare il loro stesso bisogno? Non sarà forse che l’unica, vera novità consisterebbe nel fermarsi, cioè nel non volere programmarsi ad esperire?

Bibliografia

Agamben, Giorgio, L’uomo senza contenuto [1974], Quodlibet, Macerata, 2022

Calasso, Roberto, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017

Debord, Guy La società dello spettacolo [1967], Massari, Bolsena, 2002.

Iacono, Alfonso Maurizio, “Lo spettacolo e il conformismo”, BAC BAC Associazione culturale, https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo, 2023.

Perullo, Nicola, La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci, Roma, 2013.

Perullo, Nicola, Del giudicar veloce e vacuo. Metacritica della critica gastronomica, Edizioni Estemporanee, Roma, 2020.

Perullo Nicola, Epistenologia. Il vino come filosofia, Mimesis, Milano, 2021.

1 https://www.bacbac.eu/2023/02/17/lo-spettacolo-e-il-conformismo/?fbclid=IwAR3TrWNv13QWpbdFYDAKVMA7GfJkxaiI_f4Bgygt_vrpAWRLr0FOji9q_9c

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