La piantata padana nelle terre emiliano-romagnole del 1500

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Il sistema poderale, diversificato quanto a dimensioni aziendali, ma sempre proporzionato alla famiglia colonica e alla forza di tiro animale, presuppone la coltura promiscua e l’autosufficienza alimentare del contadino grazie ad una grande varietà di prodotti: tra questi primeggiano il frumento e il vino. La coltivazione della vite avviene maritandola ad un sostegno vivo, in genere all’olmo, all’acero campestre, al salice o al pioppo disposto in filari ai bordi del campo: «Su di un terreno che un’iniziativa collettiva o pubblica ha già dissodato,(…) più facilmente anche il singolo colono potrà procedere, ormai, non solo alle normali colture erbacee, ma all’impianto di quelle colture arboree ed arbustive, la cui estensione diverrà uno dei tratti caratteristici del paesaggio agrario italiano nell’età dei Comuni; e sulle terre di un antico acquitrino, del pari, che un’abbazia cistercense ha prosciugato, e che la pubblica iniziativa di un vescovo o di un Comune ha solcato di una rete di duagli – di fossi collettori consorziali – anche il singolo proprietario potrà ormai procedere alla sistemazione idraulica del suo fondo, senza dover temere che, alla prima pioggia, le sue scoline e i suoi fossati trabocchino per mancanza di sfogo [1].» Il trionfo della piantata all’interno del paesaggio agrario emiliano coincide, oltre che con l’affermazione del podere quale struttura produttiva caratteristica, anche con l’individualismo agrario con il superamento delle pratiche solidaristiche proprie dei campi aperti e con il prevalere lento, ma costante, dell’economia del pane e del vino su quella dell’allevamento ovino e bovino [2]. La densità delle alberature e la larghezza assegnata al campo dalle tradizioni locali sono variabili, ma su ogni ettaro di superficie agraria utilizzata possiamo incontrare da 90 a 180 piante.

Il campo arativo-arborato e vitato è dunque il modello organizzativo di un sistema agrario a coltura promiscua ma intensiva, capace di esprimere il massimo di efficienza dal punto di vista energetico. Ai bordi del campo si allineano in bell’ordine centinaia di alberi e viti. Sotto i filari si stendono spazi erbosi (strenerivali) che servono da sgrondo delle acque piovane verso gli immancabili fossi di scolo. Anche la loro modesta produzione foraggiera viene utilizzata. La produzione legnosa della piantata non è trascurabile, collocandosi tra il 5 e il 10 per cento della produzione lorda vendibile. Essa serve per i bisogni energetici sia della famiglia contadina, sia del padrone in città. Tutta la letteratura agronomica, dal ‘500 in avanti, detta infatti norme e precetti per una buona dotazione arborea del podere e per l’annessa coltura viticola. Nella pianura romagnola, secondo rilevazioni catastali disponibili, si può ipotizzare che quasi due terzi delle terre arabili siano state sistemate, tra XV e XVII secolo, con la piantata di alberi e viti in filari. Stesso andamento si può ipotizzare per l’alta e media pianura bolognese, modenese e reggiana. Il discorso non muta se ci avviciniamo alle terre racchiuse dai rami deltizi del Po del ferrarese e del Polesine di Rovigo. Nel 1576 nel Polesinedi S. Giorgio, la parte meglio sistemata dell’agro ferrarese, i terreni abbragliati con la piantata sono 21.783,7 ettari, pari al 69,8% delle superfici accatastate, le quali non comprendono però i terreni vallivi e i pascoli. Gli arativi nudi coprono invece solo meno dell’11% del totale. L’espansione della piantata padana, ottenuta imponendo ai mezzadri e ai coltivatori, attraverso i patti colonici, una ingente massa di lavoro, diviene una delle strade principali di valorizzazione del capitale fondiario: «Ciò che più caratterizza la diffusione della piantata padana nel Cinquecento è la maturazione delle pratiche di sistemazione idraulica del suolo, che, raggiungendo una nuova compiutezza tecnica, diventano di tipo permanente ed intensivo, e conferiscono alle campagne un aspetto ordinato, scandito da campi regolari, delimitati da viottoli, cavedagne, scoline, e fossati, le cui rive sono ora sempre più spesso fiancheggiate da filari di vite [3]

L’investimento del proprietario urbano per dotare il podere di abitazioni per la famiglia contadina e per gli animali da lavoro verrà abbondantemente ripagato con il forte incremento di valore del campo arborato e vitato rispetto alle altre forme di uso del suolo. Si può dunque concludere che l’avanzata dei coltivatori nel cuore delle terre inselvatichite e delle residue foreste padane avviene dal XVI secolo in avanti ricollocando con ordine ai bordi dei seminativi quegli alberi che erano stati estirpati qualche anno o qualche secolo prima. Facendo questo l’agricoltore compie anche una selezione rigorosa ed economicamente funzionale delle specie arboree: alberi dolci (salice, pioppo) per asciugare terreni umidi e fornire pali, fascine, vimini; alberi da foraggio che contemporaneamente fungono da sostegno vivo per la vite (olmo, acero campestre, frassino); alberi da reddito per la produzione di foglia e per l’allevamento dei bachi da seta (gelso); alberi da olio, come il noce, valido sostituto dell’ulivo in tutta la bassa padana, col cui legname si facevano mobili e arredi; alberi forti e da cima per fare travi e legname da opera, come la farnia [4], alberi da frutto, ecc.

Intorno al 1500 il paesaggio rurale cambia.

I vantaggi che comporta la piantata sono molteplici, tanto che si possono sviluppare contemporaneamente diverse colture: la vite, i seminativi al suolo e il foraggio. Visto il clima delle zone padane, non certamente il più adatto alla produzione vitivinicola, le viti mantenute in alto dagli alberi permettono ai grappoli la massima insolazione che favorisce la maturazione, ed il minimo di umidità, che impedisce i pericoli delle muffe. Gli ‘alberi tutori’ sono prevalentemente l’olmo, l’acero campestre (quello che i contadini chiamano ancora opi) e in alcuni casi sono impiegati anche pioppi e gelsi. Le foglie di queste piante, raccolte quando erano ancora verdi, costituiscono una ottima integrazione alimentare invernale per i bovini. Gli alberi sono piantati in filari distanti alcuni metri tra loro e altrettanti dal filare vicino: nel sistema reggiano la norma è una distanza di 6 metri, mentre nel mantovano i filari distano fino a 30 metri [6].Leandro Alberti [5] assicura nella sua «Descrittione di tutta Italia» che, «scendendo alla via Emilia e camminando per mezzo dell’amena e bella campagna questa appare ornata di vaghi ordini di alberi dalle viti accompagnate». Per tutta la pianura emiliana, racconta sempre Alberti «si veggono artificiosi ordini di alberi sopra i quali sono le viti, che da ogni lato pendono.» E’ la piantata padana; questa la disposizione degli alberi a tutela della vite, che secondo alcuni è già presente nel Medioevo, e che è quasi sopravvissuta fino ai giorni nostri.

Una descrizione esaustiva e compiaciuta, a ragione, della piantata ci giunge a metà del Seicento dal Tanara: «fili d’arbore, o piante che sostentano le viti: con questi non s’occupa o impedisce parte alcuna di terreno che non si possi lavorare e cavarne frutto; anzi dallo stesso lavorare che per altrui si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui (gli alberi) mantengono e sostentano la vite, e col mezzo di questi le allunghi e dilati tanto, che rende più un filo di questi arbori, o due (alla bolognese) nella piantata bene aiutata che non fa una vigna, porgono ancora dilettazione alla vista e servono di comodità di separare un campo dall’altro… [7]

NOTE

[1]      Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Edizioni Laterza, Roma – Bari 1997, pp. 125, 126 (edizione originale 1961)

[2]      Cfr. Marco Cattini, Individualismo agrario, viticoltura e mercato del vino in Il vino nell’economia e nella società italiana,Quaderno RSA 1 AA.VV. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, 1988 pp. 203 – 220

[3]      Francesca Finotto, Vaghi ordini di alberi dalle viti accompagnati: la piantata padana, in Quaderni della Ri-Vista, ricerche per la progettazione del paesaggio anno 2007 – numero 4 – volume 1 – gennaio-aprile, pag. 178 in http://www.unifi.it/ri-vista/quaderni/…/quaderno…/14_FINOTTO_Piantata_padana_completo.pdf – Simili

[4]      Quercia

[5]      Leandro Alberti (1479-1552) Storico bolognese. Nella prima giovinezza attrasse l’attenzione del Retorico Giovanni Garzo, che volontariamente si offrì come suo insegnante. Entrò nell’ordine domenicano nel 1493 e dopo aver completato i suoi studi teologici e filosofici fu chiamato a Roma dal suo amico il Maestro Generale Francesco Silvestro Ferraris nel 1528. Nel 1517 pubblicò in sei libri un trattato sugli uomini più illustri del suo ordine, tradotto in molte lingue. Oltre a numerose Vite di Santi, e una storia sulla Madonna di San Luca e sul Monastero che ne porta il nome, pubblicò una cronaca sulla sua città natale: Istoria di Bologna. La fama di Leandro Alberti resta però legata alla sua ‘Descrittione di tutta Italia’, del 1550, in cui si trovano numerose osservazioni topografiche ed archeologiche. Da http://www.sassiweb.it/matera/la-citta-di-matera/introduzione/materani-illustri/biografie-personaggi-illustri/bioalberti/

[6]      Franco Cazzola, Terre senza foreste: zone umide, pinete costiere e piantate di alberi nell’economia agraria della bassa valle del Po (secoli XV-XVIII), in L’uomo e la foresta, sec. XIII-XVIII,«Atti della ventisettesima settimana di studi» (Prato, 8-13 maggio 1995) dell’Istituto internazionale di storia economica ‘F. Datini’ di Prato, a cura di S. Cavaciocchi, Le Monnier, Firenze 1996, pp. 971-988. Id., Disboscamento e riforestazione ‘ordinata’ nella pianura del Po: la piantata di alberi nell’economia agraria padana, secoli XV-XIX, in «Storia Urbana», anno XX, n. 76-77, luglio-dicembre 1996, pp. 35-64.

[7]      Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa del sig. Vincenzo Tanara. Libri VII. Quarta impressione, riveduta, & accresciuta in molti luoghi, con l’aggiunta delle qualità del cacciatore, Bologna 1656 (prima edizione Venezia 1644) citato in Marco Catini, cit. pag 205