Le etichette che avvertono: “l’alcol fa male!” Comunque bevete

Il fastidio che mi provocano le enunciazioni o le segnalazioni in termini testuali e simbolici a scopo educativo nasce dalla concomitanza di elementi correlati, inespressi e sottilmente furbeschi.

Provo ad elencarli:

  1. Nella maggior parte dei casi, se non nella totalità, l’invito al controllo delle pulsioni primordiali proviene da soggetti i cui fini principali sono tendenzialmente l’opposto: vuoi per questioni commerciali, vuoi per merito politico, vuoi per ragioni di tassazione o per tutte queste messe insieme: l’acol fa male, le sigarette fanno male, il gioco d’azzardo crea dipendenza, ma a me, Stato sovrano, interessa che si continui a peccare perché dai vizi e dagli ozi ne traggo indebito vantaggio erariale. L’etichetta, ancora prima di essere un avvertimento per la salute assume lo spazio illogico del consiglio non richiesto. Lo slogan, allora, rileva i suoi contenuti nascosti: l’invito a bere comunque e la raccomandazione preventiva poi: “con moderazione, o magari per nulla”. “Attenzione il gioco d’azzardo può creare dipendenza!” Intanto gioca! Intanto bevi! Intanto fuma! Si potrebbe obiettare a tutto questo che il compito dello Stato non sia quello di proibire o di vietare comportamenti controproducenti, ma che sarebbe quello di consigliare ed avvertire. E’ assolutamente evidente che così non succeda per moltissime cose sulle quali ci sarebbe da discutere a lungo, molto a lungo. La seconda, quella più insopportabilmente ipocrita, è che da tali ‘nefasti” commerci lo Stato trae un ponziopilatesco guadagno.
  2. L’esortazione. Aristotele distingueva i discorsi dichiarativi, apofantici, da tutti gli altri discorsi: i primi si discernono dagli altri perché enuncerebbero il vero o il falso. “Dichiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera né falsa[1].” La base della logica aristotelica, da cui discende il metodo del sillogismo, unica forma della conoscenza attraverso il processo deduttivo, poggia sul principio di non contraddizione (libro IV della Metafisica): una cosa non può essere il contrario di se stessa. Senza dilungarsi troppo, l’esortazione, come la preghiera, sfugge al principio di verità così come a quello di falsificazione: raccomanda, incoraggia e soprattutto assolve chi la pronuncia.
  3. Il piacere. Le esortazioni  alla virtù media riguardano quelli che comunemente chiamiamo piaceri. Prima di addentrarmi nel merito del piacere, vorrei porre all’attenzione il fatto che la moderazione viene raramente proposta per gli sforzi produttivi e riproduttivi. Mentre è senso comune che un bel gioco deve durare poco, non  lo è altrettanto per le pratiche di fatica quotidiana: lungi dal moderarle, esse vengono sostenute come forme primarie di virtù ed emancipazione. Sarebbe interessante affiggere nei posti di lavoro la Biblica condanna (“con il sudore del tuo volto mangerai il pane”, Genesi: 3:19): il lavoro nuoce gravemente alla salute! il lavoro uccide! Gli antichi sapevano, però, che valeva il contrario. Il tema del piacere ha una lunga storia che trova principio e vitalità discorsiva nelle grandi zuffe dei filosofi greci. A grandi linee si può affermare il tema del godimento venne affrontato attraverso alcune linee interpretative comuni, che poi portarono ad esiti anche radicalmente opposti. Innanzitutto il piacere veniva collegato alla sensazione (il sentire) imperniata sul movimento del simile del dissimile (Omero, Parmenide, Empedocle, Platone, Eraclito). La fonte delle sensazioni era gerarchica: gusto e tatto in basso e udito e vista in alto. Il piacere dei sensi presupponeva una mancanza: il riequilibrio naturale del corpo e della mente significava colmare questa lacuna (Pitagora, Parmenide, Empedocle, Anassagora). La quantità, la qualità e il tempo di tale riempimento era dato dalla ‘misura’ (Epicuro, Democrito). Per alcuni filosofi il piacere veniva visto esclusivamente nel rapporto di relazione/esclusione con il suo opposto, cioè il dolore (Cleobulo, Solone di Atene).  Per altri ancora il piacere era in stretto rapporto con la felicità e soltanto per pochi il piacere era anche un bene (Eudosso criticato fortemente da Speusippo secondo il lascito di Aristotele nell’ “Etica a Nicomaco”) e, a volte, l’unico bene (Cirenaici). Dalla distinzione dei piaceri discendevano i  tre tipi di vita: edonistica, politica, filosofica[2]. I Cirenaici, seguaci di Aristippo di Cirene, discepolo di Socrate, sostenevano che “il ‘piacere’ non era quello ‘stabile’ poi teorizzato da Epicuro, bensì, soltanto, quello del senso e del momento (…) Il vangelo cirenaico doveva poi in molti aspetti avvicinarsi allo stesso vangelo cinico: non per nulla essi erano sorti entrambi dallo stesso terreno sofistico-socratico, e anche per il primo restava viva la tipica esigenza socratica della ‘saggezza’ (ϕρόνησις), sia pure intesa, ora, come mero calcolo dei piaceri. Se il cinico tendeva all’assoluta αὐτάρκεια, alla sufficienza di sé immune da ogni desiderio, il cirenaico mirava comunque all’αὐταρχία, al dominio di sé pur nell’appagamento del desiderio: da ciò le tipiche massime cirenaiche dell’’usare i piaceri ma senza esserne vinti’, del ‘possedere senza essere posseduti’[3].” 

4.  Le etichette e le loro aporie. Una sintesi riassuntiva per quanto mi riguarda

L’esigenza di aporrre un “avvertimento” salutistico riguarda più il senso artificiosamente moralistico di uno Stato che si premura di trarre profitto da ciò che, dall’altra parte afferma, e non senza ragioni probatorie, che faccia male. Invece di caricarsi della responsabilità di ciò che sostiene, in maniera proficuiamente ipocrita, lo Stato scarica sul destinatario del consiglio non richiesto l’onere del senso di colpa rovesciato. Il genere umano dovrebbe ragionare in maniera più ampia e articolata su ciò che fa male e sul perché, sul concetto di salute, e su ciò che viene tolto o dato in funzione del suo utilizzo a profitto.

In questo senso la ragione scientifica, come dicevo assolutamente vera, addotta a sotegno del provvedimento puzza lontano mille miglia di puritanesimo prestato al conto-vendita che non riesce a fare i conti con i problemi sociali e individuali, quindi anche sanitari, legati all’uso e all’abuso di sostanze di vario genere e gradazione.

La cosa più divertente è che non accadrà proprio nulla: chi non leggeva prima non leggerà dopo; chi non voleva consigli, non li chiederà ad un’etichetta. I veri businessman creeranno meravigliosi copribottiglia per nascondere le etichette disturbanti e la colpa sarà distribuita equamente tra la morale e la scienza.

Andate in pace e bevete secondo coscienza

[1] Aristotele, De Interpretatione, 17a 1-32 in  Organon, Laterza, Bari, 1970, vol. II, pagg. 60-61

[2]  Cfr. Luciano Montoneri (a cura di), I filosofi greci e il piacere, Laterza, Bari-Roma 1994 in particolare cap. 1,6,7

[3] Guido Calogero, Cirenaici, Enciclopedia Italiana (1931)

Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo. E allora io bevo

Eduardo_De_Filippo

Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo (Eraclito).

Il feroce dio delle messi, Kronos, partecipe delle divinità sotterranee e signore dei Titani, divoratore cruento dei propri figli, perdonato da Zeus e liberato dalle proprie catene nel Tartaro, rinasce per via della mistica orfica. Diviene, così, basileus immortale delle isole Beate al di là dell’Oceano, terre in cui si rifugia la felicità di un’antichissima stirpe aurea. L’uomo partecipa, per la prima volta, al divino. Ma l’orfico Kronos è solo assonante, occlusivo e aspirato, di Chronos.

saturnoSaturno che divora i suoi figli (F.Goya, pitt., Mus. del Prado, Madrid, 1819 -1823)

Prima una stirpe aurea di uomini mortali
fecero gli immortali che hanno le Olimpie dimore.
Erano ai tempi di Kronos, quand’egli regnava nel cielo;
come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,
lungi e al riparo da pene e miseria, né triste
vecchiaia arrivava, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia,
nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni;
morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni
c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra
senza lavoro, ricco ed abbondante, e loro, contenti,
in pace, si spartivano i frutti del loro lavoro in mezzo a beni infiniti,
ricchi d’armenti, cari agli dèi beati[1]

Il Tempo non è stato ancora raggiunto: è sospeso nel lungo abbraccio festoso tra Kronos e Saturno, quando la semina si congiunge, ciclicamente, alla fertilità, all’abbondanza e all’eguaglianza. Ma perché Kronos diventi lo scorrere ineluttabile di giorni, perché muti in Chronos-Tempo, bisognerà aspettare che la fama postuma cinga, dei suoi futili allori, i Trionfi del Petrarca:

Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra ’l primo è alcun riparo.
Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo.

E, di seguito, che li rappresenti in modo figurato: al falcetto di Kronos-Saturno, il Tempo rimpiazza la lunga falce da fieno, allegoria della Morte livellatrice; al posto del veloce carro del Sole-Apollo, un carro di trionfo condotto dalle quattro stagioni e uno sfondo di rovine, sostituisce l’antica età dell’oro.

Ma ben si sa, in tutto il mondo antico, della fugacità del tempo[2].

Infinito fu il tempo, uomo, prima

che tu venissi alla luce, e infinito

sarà quello dell’Ade. E quale parte

di vita qui ti spetta, se non quanto

un punto, o, se c’è, qualcosa più piccola

di un punto? Così breve la tua vita

e chiusa, e poi non solo non è lieta,

ma è assai più triste dell’odiosa morte.

Con una simile struttura d’ossa

tenti di sollevarti fra le nubi nell’aria!

Tu vedi, uomo, come tutto è vano:

all’estremo del filo c’è un verme

sulla trama non tessuta dalla spola.

Il tuo scheletro è più tetro

di quello di un ragno. Ma tu

che, giorno dopo giorno, cerchi

in te stesso, vivi con lievi pensieri,

e ricorda solo di che paglia sei fatto.

A.P. Liber VII, 472. (Leonida di Taranto, Taranto, 320 o 330 a.C. – Alessandria d’Egitto, 260 a.C.)

“Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né due volte toccare una sostanza mortale nello stesso stato; ma per l’impeto e la velocità della mutazione (si) disperde e di nuovo si ricompone, e viene e se ne va (fr. 91). A chi discenda negli stessi fiumi, sopraggiungono sempre altre e altre acque (fr. 12). Noi scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo. (fr. 49)”, dice Eraclito. Un tempo (αἰών) unico e non-rinnovabile: è il tempo divino, indivisibile, in cui convivono passato, presente e futuro. Lo scorrere del tempo è un susseguirsi in cui ogni cosa lascia il posto al suo contrario; questo processo di alternanza non è né libero né casuale, ma viene regolato da una legge necessaria e da una trama nascosta, il logos: “Nel logos come legge nascosta che governa permanentemente tutti gli eventi manifesti torna il concetto di tempo come chronos: sotto quello che sembrava l’imponderabile, quasi capriccioso, avvicendarsi di istanti compiuti in se stessi, ‘perfetti’ ed ‘eterni’ (aíon), si scopre un ordine (chronos), ancorché profondo e non accessibile a tutte le menti, che in realtà vincola e unisce quegli istanti. Ma la ragione, il logos, è essa stessa eterna e permanente: ecco che a sua volta il chronos si rivela come aíon. In altre parole: l’essenza permanente della realtà è il mutamento e la transitorietà. Il mutamento e la transitorietà però ricevono dal logos un senso: gli eventi, anche se in continuo divenire, non sono casuali, ma obbediscono a una legge”. [3]  Prima ancora che aion assuma le fattezze e la stabilità dell’eternità in opposizione al tempo misurabile, vi è una narrazione epica (Omero) in cui esso indica la forza vitale, e, in senso traslato, la vita e la durata stessa della vita. Lo Zodiaco, “invocato come ‘dominatore della volta celeste eterna’ (αἰωνοπολοκράτωρ: Pap. Gr. Mag., I, 202), viene anche definito ‘signore dei diademi ardenti’ (δεσπότης των πυρίνων διαδημάτων: Pap. Gr. Mag., IV, 520 s.), cioè della traiettoria celeste: evidente assunzione di una mansione specifica di Helios. Secondo una notizia di Epifanio (adv. Haer., LI, 22), ogni anno nel Korèion di Alessandria, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, veniva inscenato il rito della nascita di Αion, non senza connessione con la divinità egizia della vegetazione, Osiride: palese è il riferimento all’inizio del nuovo anno quando, secondo il vecchio calendario tebano, il sole, raggiunto il punto del solstizio d’inverno, riprendeva la sua corsa ascendente verso l’orizzonte”.[4]

cubicoloVilla di Silin (Leptis Magna – Libia), cubicolo diurno, stagioni

Da sinistra avanzano in direzione della personificazione del Tempo che sorregge lo Zodiaco con entrambe le mani. Le Quattro stagioni vengono accompagnate dai propri frutti già in atto di varcare la ruota Autunno, seguita dall’Estate, quindi la Primavera con il putto su una spalla; la teoria stagionale, avvolta nel mantello, è la personificazione dell’Inverno.

“Nel medesimo calice non è possibile bere due volte lo stesso vino”, con timore, sostengo io.

Tempo umano e tempo divino; tempo assoluto e tempo rifratto. Il tempo misurabile, concesso all’umanità, somiglia al mito della luce riflessa nella caverna platonica, un’immagine mobile dell’eternità, che procede secondo il numero. La creazione del tempo coincide con quella delle orbite planetarie intorno alla terra: «il tempo dunque fu fatto insieme col cielo» (Timeo 38b). “Ora, – dice il protagonista del dialogo – la natura dell’anima era eterna, e questa proprietà non era possibile conferirla pienamente a chi fosse stato generato: e però [il Demiurgo] pensa di creare una immagine mobile dell’eternità, e ordinando il cielo crea dell’eternità che rimane nell’unità un’immagine eterna che procede secondo il numero, quella che abbiamo chiamato tempo”.[5]

O, diversamente dal maestro Platone, il tempo numerato di Aristotele, quello dell’anima: se è possibile un quantum di numerabile questo avviene perché vi è un numerante, una coscienza (l’anima o la mente a dir si voglia) in grado di misurarlo. O perlomeno di ordinarlo. Il tempo, che di per sé non esiste (Una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non enti, possegga una essenza, Aristotele Fisica, IV, A 7, 213 b 21), non è concepibile se non come accidente del cambiamento, che presuppone un prima e un dopo (il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi, Aristotele, Fisica, IV, 11, 219b) e una mente che sia in grado di percepirlo: “quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutar nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto.” Il tempo si avverte come aspetto del movimento e, come tale, possiede la proprietà della continuità. Quest’ultima appartiene al tempo come una grandezza che presenta dei limiti in rapporto a ciò che è anteriore e ciò che è posteriore. Movimento, che ha un numero ed è determinabile quantitativamente, e tempo hanno luogo inseparabilmente: l’istante viene definito tra i due estremi che limitano il tempo, la cui grandezza è in simultanea corrispondenza con quella del movimento.

Lontano dagli echi di Agostino, si ascoltano le parole di un tempo soggettivo in cui la memoria produce il senso del flusso e la sua innata coscienza: “E, tuttavia, non v’è stato d’animo, per quanto semplice, che non muti ad ogni istante: perché non v’è coscienza senza memoria, non continuazione di uno stato senza che si aggiunga al sentimento presente il ricordo dei momenti passati. In questo consiste la durata. La durata interiore è la vita continua d’una memoria che prolunga il passato nel presente: o che il presente racchiuda esplicitamente l’immagine, senza posa crescente, del passato, o che attesti, piuttosto, con il suo continuo mutare di qualità il carico sempre più pesante che trascina con sé, via via che invecchia. Senza questo sopravvivere del passato nel presente non vi sarebbe durata, ma solo istantaneità”.[6] L’empireo corrisponde al primo motore immobile di Aristotele.

empireo

Petrus Apianus, Cosmographicus liber, Landshut 1524

Quando Lucrezio, nel primo secolo a.C., chiede e si domanda della caducità del mondo, “non vedi tu come le pietre stesse siano sottoposte a corrosione dal tempo? Non vedi come le eccelse torri si sgretolino e si riducano in polvere? Non vedi come i sacri templi e le statue degli dei cedano anch’essi sopraffatti dagli anni?…” (De rerum natura), il cristianesimo è ancora a venire. Quando, al termine del 1500, Shakespeare fa parlare l’arpista egiziano, il cristianesimo ha già detronizzato il tempo eterno, consegnando ai mortali la ritualità ciclica della natura, che coincide con quella dei campi. Ogni cosa ha il suo tempo, perché ogni cosa è sottoposta al suo tempo, sotto un sole che non lascia nulla di nuovo (nihil novi sub sole). Ma ciò che non muta è la sua passaggio divoratore, che fa sottostare splendori e amori alla rabbia della morte:

Quando dalla mano spietata del Tempo ho visto sfigurato

il ricco superbo sfarzo di età consumate e sepolte,

quando talvolta torri sublimi vedo rase al suolo,

e il bronzo eterno schiavo del mortale furore;

quando ho visto l’oceano affamato conquistare

vantaggio sul regno delle spiagge,

e la ferma terra vincere sulla distesa delle acque,

accrescendo possesso con perdita e perdita con possesso;

quando ho visto un simile avvicendamento di stato,

o lo stesso stato sconvolto a decadere,

la rovina mi ha insegnato così a rimuginare,

che il Tempo verrà e porterà via il mio amore.

Questo pensiero è come una morte, che altro non può

che piangere di avere ciò che teme di perdere”.[7]

E allora bevo di Eduardo De Filippo

           Dint’ a butteglia                  

n’atu rito ‘e vino

è rimasto…

Embe’

che fa

m’ ‘o guardo?

M’ ‘o tengo mente

e dico:

“Me l’astipo”

e dimane m’ ‘o bevo?”

Dimane nun esiste.

E ‘o juorno primma,

siccome se n’è gghiuto,

manco esiste.

Esiste sulamente

stu mumento

‘e chistu rito ‘e vino int’ ‘a butteglia.

E che ffaccio,

m’ ‘o perdo?

Che ne parlammo a ffà!

Si m’ ‘o perdesse

manc’ ‘a butteglia me perdunarria.

E allora bevo…

E chistu surz’ ‘e vino

vence ‘a partita cu l’eternita’!

Nella bottiglia

è rimasto un altro goccio di vino…
allora

che faccio, me lo rimiro?

Lo tengo a mente

e dico:

lo conservo

e me lo bevo domani?

Il domani non esiste.

E il giorno prima,

siccome è già passato,

neanche esiste.

Esiste solamente

questo momento

e questo goccio di vino nella bottiglia.

E che faccio,

me lo perdo?

Neanche a parlarne!

Se me lo perdessi,

neanche la bottiglia mi perdonerebbe.

E allora… bevo…

e questo sorso di vino

vince la partita con l’eternità!

[1]  Esiodo, Le opere e i giorni, 109-120 (VIII secolo a. C.) Traduzione di Graziano Arrighetti, in Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino 1998

[2]  Cfr. Erwin Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento. In particolare cap. III Il Padre Tempo, pp. 89 – 134 Einaudi, Torino 1975

[3] Silvio Vitellaro, Testo 1- Dai Frammenti di Eraclito, in vitellaro.it

[4] L. Musso, Aion, in Enciclopedia dell’ Arte Antica, Treccani, Roma 1994

[5] Platone, Timeo 37c,d in Opere complete, Laterza, Bari 1971

[6] Henri Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Bari – Roma 1983, pag. 17

[7] Sonetto numero 64. in W. Shakespeare, Sonetti, trad. di Alessandro Serpieri, Bur, Rizzoli, Milano 1995