Declinare le proprietà di un vino o di un idiota

Рисунки и рукописный текст Ф.М. Достоевского. “Идиот”
Di Fëdor Dostoevskij – http://az.lib.ru/d/dostoewskij_f_m/text_0810.shtml, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=65476356

Potrebbe sembrare una questione squisitamente filosofica, con insensate deviazioni semantiche e biforcazioni matematiche, ma l’attribuzione di una qualità (positiva o negativa) a qualcosa riguarda sia il godimento della qualità in oggetto, che del come essa venga goduta. Non basta dire, in altre parole, che uno è un idiota allorché palesi la sua evidente idiozia, ma occorre aggiungere in che modo il tizio in questione riveli la sua idiozia. E, poi, per essere fino in fondo corretti, occorrerebbe specificare anche se gode di quella proprietà, ovvero dell’idiozia, in modo necessario. “Vediamo che ciò che sarà ha origine sia dal deliberare che dall’agire, e che in generale, nelle cose che non sono sempre in atto c’è la possibilità di essere e di non essere; qui le possibilità sono aperte, sia l’essere che il non essere, e di conseguenza sia l’aver luogo che il non aver luogo. Molte sono le cose che ci è manifesto che stanno in questo modo.” Nel capitolo IX de “Sull’interpretazione” Aristotele presenta un argomento contro il principio di bivalenza, ovvero la tesi secondo cui ogni enunciato (assertivo) possa essere vero o falso. Diversamente, per quanto riguarda il futuro, ogni asserzione non necessaria si presuppone possibilmente vera o possibilmente falsa, dove per ‘possibile’ si intende ‘potenziale’. Si apre qui la disanima degli enunciati contingenti che aprono al dilemma dei futuri contingenti[1]. Se il primo principio analizzato è quello della bivalenza, il secondo è quello del terzo escluso (tertium non datur), mentre il terzo ed ultimo riguarda il principio di non contraddizione: tra due enunciati contraddittori non può esservi un medio.
Il Medioevo (Abelardo utilizza il commento di Boezio al testo di Aristotele) farà un salto qualitativo nella valutazione delle asserzioni modali, innanzitutto distinguendo gli enunciati assertori, ad esempio “il vino è un alimento”, oppure “il vino non è un alimento”, che riguardano l’inerire (de inesse), cioè il possedere o meno una determinata proprietà, dalle asserzioni modali, che specificano il modo secondo cui il soggetto possiede la proprietà in questione. Tra le asserzioni modali si distinguono poi quelle de dicto, se il modo che le qualifica si riferisce all’intera frase: “il vino biologico non è un vino naturale” (necessariamente vero); oppure de re: “il vino biologico non è un vino necessariamente naturale”; oppure ancora: “il vino biologico non è naturale necessariamente”, se una cosa gode o non gode di una certa proprietà in modo necessario. Questa distinzione tra le proposizioni modali (de dicto/de re) giunge a noi, attraverso il dibattito filosofico, linguistico e matematico, che attraversa un paio di millenni, più o meno immutata.
Lo stesso vale per il vino. Se pensiamo che nella definizione dell’ O.I.V. “Il vino è esclusivamente la bevanda risultante dalla fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca, pigiata o meno, o del mosto d’uva. Il suo titolo alcolometrico effettivo non può essere inferiore a 8,5% vol. (…)” non sappiamo proprio nulla delle qualità relative ad un vino. Quello che succede nel dibattito attuale, in maniera nemmeno celata, è che il vino risulterebbe tale, ovvero vino, soltanto se frutto di alcuni processi che ne rivelino determinate qualità specifiche e non altre. Ma, essendo l’uva l’unico ingrediente disponibile e incontrovertibile, la cosa si complica un tantino e sposta la contesa su piani differenti: la vigna, il terreno, i prodotti in uso alla coltivazione, alla fermentazione, in cantina. I recipienti… E, poi, il lavoro, il trasporto, la commercializzazione, l’etichettatura….
Potremmo affermare, con David Lewis, esegeta del realismo modale, che “ci sono molti modi in cui le cose avrebbero potuto essere, oltre al modo in cui effettivamente sono.” Questi mondi possibili, inclusivi, isolati gli uni dagli altri, causalmente indipendenti, che condividono proprietà esemplificate dagli oggetti che appartengono a ciascun mondo esistono parallelamente al nostro, o meglio ci introducono nuovamente al discorso aristotelico sulla potenzialità e a quello, ben più pernicioso, sulla verità.
Partiamo allora da quello che Roland Barthes chiamò “il verosimile critico”: al di là di ogni metodo, il verosimile critico, nel dibattito su come dovrebbe essere il vino, si pone al di qua di ogni ragionevole dubbio. Innamorato dell’evidenza, il verosimile critico, elabora regole che non si possono trasgredire, a meno che non si voglia toccare la natura stessa delle cose: “i disaccordi diventano deviazioni, le deviazioni errori, gli errori peccati, i peccati morbi, i morbi mostruosità[2]”.
Alla base di tutto, probabilmente, c’è la funzione totalitaria del verbo ‘essere’: “ancora oggi, dal punto di vista strategico, il verbo essere serve un po’ a tutto, è dotato dei significati più contraddittori; sbrigativo, discreto e innocente, trasforma, con un colpo di bacchetta magica, un’opinione in verità, una speranza per il futuro in antichissima realtà, una semplice affermazione in Natura universale; arma, utensile o velo, a seconda delle necessità della Causa, è lo Scapino[3] della retorica oltranzista. […] Ecco cosa c’è nel verbo essere della retorica oltranzista: una furibonda collusione tra l’indicativo e l’ottativo, la trasformazione impossibile del desiderio in fatto, del futuro in passato, al di sopra di un presente che resiste[4]”.
Dunque, come diceva la mia professoressa di latino: nel bene e nel male occorre sempre declinare.


[1] Cfr. Massimo Mugnai, POSSIBILE / NECESSARIO, Il Mulino, Bologna 2013
[2] Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi, Torino 2002, pag. 20
[3] Scapino Maschera del teatro italiano, figlio di Brighella, che rappresenta il servo incostante, intrigante, spiritoso, mentitore e millantatore, detto anche Scappino. Indossava il camicione e i pantaloni bianchi degli Zanni, cui in seguito si aggiunsero una livrea listata di verde. Celebri S. furono F. Gabrielli, G. Bissoni, bolognese (inizi 18° sec.), e A. Ciavarelli, napoletano (18° sec.). Molière ne fece il protagonista della commedia Les fourberies de Scapin (1671). Teccani.it
[4] Roland Barthes, Mythologies, du Seuil, Paris 1993, trad. it. di L. Lonzi, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pp. 263-265.

Dialogo a distanza con Sandro Sangiorgi a partire dal suo “Il vino è dentro di noi” – Porthos 37

Porthos Trentasette

Ne approfitto

Ne approfitto. Approfitto del numero unico di Porthos, il 37. E approfitto di Sandro Sangiorgi e del suo scritto “Il vino è dentro di noi”. Approfitto anche degli studi che sto facendo in merito all’invenzione del giudizio di gusto nei secoli passati. Infine, approfitto della qualificazione di “naturale” connessa al vino. Non lo faccio per difendere qualcosa, perché l’ho già fatto. Non lo faccio neppure per entrare nel merito della discussione sul vino naturale, perché non è questo il tema.

Il vino naturale e la filosofia degli antichi

L’argomento di questo intervento è il tentativo di comprendere come il vino naturale, nelle parole di Sangiorgi, si collochi all’interno di una tradizione estetica molto antica e come questa si confronti con i percorsi attuali di conoscenza e di giudizio. Insomma, sposto lo sguardo senza distogliere l’attenzione.

Sangiorgi scrive (pag.11): “Il vino naturale ci ha riconsegnato il senso delle parole da usare per descrivere la complessità. Per esempio, il riferimento al concetto di “natura” per come l’aveva immaginato Galeno, comune ai mondi umano, animale, vegetale e minerale. Possiamo quindi definire naturale un vino di cui si è assecondata la natura; è “naturale” se lo si è aiutato a nascere senza ostacolare la relazione tra luogo, vitigno, consuetudine e condizioni di una specifica annata. Naturale come espressione della natura della sostanza, la sua temperatura, il suo stato. I sensi ci consentono di percepire, come il nostro sistema neuroendocrino di elaborare, lo spirito dell’essere animato. La lettura del vino naturale si basa essenzialmente sulla natura del soggetto esaminato. Quindi, cogliere se questa natura sia stata rispettata, sia stata espressa integralmente. La complessione di galenica memoria comprende il corpo e lo spirito, quando si parla di temperatura ci si riferisce al temperamento, la sua sostanza non è semplicemente il peso, una sorta di materia inanimata – sempre che ne esista davvero una – ma è anche il flusso, la forza”.

Presso gli antichi l’opera è concepita come un microcosmo: il bello è sempre considerato nella sua dinamicità come punto di equilibrio nell’oscillazione fra due estremi che sono costituiti dalla grazia (armonia) e dal sublime (contesa).

E ancora Sangiorgi: “Io fatico ad accettare che il profumo e il gusto possano ricevere due valutazioni diverse, come fossero due entità indipendenti generate da contesti separati.” (Porthos 37, pag.12)

Nel Filebo di Platone, il bello diviene la realizzazione della misura in cui si attuano una serie di corrispondenze tra il corpo e l’anima e fra queste e il cosmo: “Ed ecco ora che l’essenza (dynamis) del bene ci s’è rifugiata nella natura (physis) del bello perché certo misura giusta e proporzione accade che siano dovunque bellezza ed eccellenza”.

In epoca medievale Boezio (Roma, 475/477 – Pavia, 524/526) sostiene, nel suo ‘De institutione musica’, che l’armonia musicale mundana (cosmica) derivante dagli astri e non percepibile dall’uomo, si fonda sull’equilibrio dei quattro elementi presenti in natura – acqua, aria, terra e fuoco; allo stesso modo la musica humana rappresenta l’armonia dell’uomo con sé stesso e di sé con il mondo. E la musica instrumentis constituta, derivante dalle altre due, si forma attraverso il rapporto armonico dei suoni come imitazione della musica vocale: “Agli occhi del dotto medievale la musica rappresentava un incontro tra filosofia, teologia e pratica liturgica, l’una riflesso dell’altra su piani differenti. Seguendo la lezione del ‘Timeo’ platonico, la teoria musicale veniva vista come applicazione dell’ordine numerico su cui l’intero cosmo era fondato. Il canto era invece eco dei cori angelici in sempiterna lode del Creatore. In questa prospettiva, il concetto di harmonia veniva letto in chiave esemplaristica, ossia come processo di manifestazione dell’ordine archetipico nella gerarchia dell’Essere universale. La musica strumentale era qui imitazione della musica vocale. Questa era a sua volta l’immagine nel tempo e nello spazio del canto angelico, superiore alla dimensione temporale e udibile solo attraverso l’’orecchio del cuore’ (simbolicamente, la conoscenza interioritatis hominis). I cori angelici (‘Trisagio’, ‘Alleluia’) costituivano infine lode e manifestazione nel suono metafisico della Perfezione divina, assimilata apofaticamente al silenzio. La teoria aritmetica delle proporzioni numeriche, in cui si descrivono vuoi le relazioni tra note musicali vuoi i ritmi, era a sua volta concepita esemplaristicamente come copia dell’ordine noumenico insito nella ‘mente di Dio (Ernesto Mainoldi, La filosofia della musica nel Medioevo)”.

Quello che torna nella parole di Sangiorgi interessa i motivi di assonanza per cui il vino naturale nasce, è tale in altri termini, sia nella sua relazione di armonia (relazione dinamica) con il luogo, il vitigno, la consuetudine e le condizioni di una specifica annata, sia nelle sue particolarità essenziali: la temperatura, lo stato (di natura). I sensi ci aiutano dunque a percepire e a valutare questa corrispondenza. Nessuno degli elementi appena descritti appartiene ad un mondo a sé stante: il microcosmo del vino non fa parte di un più ampio macrocosmo della natura, ma vi corrisponde nelle sue peculiarità espressive. E i sensi, secondo la teoria umorale di derivazione ippocratico-galenica, sono essi stessi prodotto degli elementi costitutivi del cosmo (aria, terra, fuoco e acqua), delle stagioni, dei punti cardinali, delle età, degli umori e delle complessioni da essi derivanti. La bellezza, e dunque la bontà, non sono un mezzo di valutazione esterna al prodotto che si vuole giudicare, in questo caso il vino, ma condividono con esso e con la natura di cui fanno parte gli stessi strumenti e le medesime caratteristiche fondamentali. La differenza, di matrice aristotelica, è che la natura agisce le trasformazioni senza alcuno sforzo perché è immanente all’opera stessa (non ha altri fini al di fuori di sé), mentre l’artigiano opera razionalmente e volontariamente affinché la materia trovi la forma e la sostanza voluta in accordo con le leggi della natura.

Marsilio Ficino, ancora in pieno ‘400, nella Theologia Platonica de immortalitate animarum (1482), scrive: “Che cos’è l’arte umana? Una natura particolare che opera sulla materia dall’esterno. Che cos’è la natura? Un arte che dà forma alla materia dall’interno”.

La rottura epistemologica del 1600

Nell’antichità è l’ordine cosmico a fondare per gli uomini la validità dei valori e ad instaurare fra loro un possibile spazio comunicativo: “da Cartesio (31 marzo 1596 – 11 febbraio 1650) tutto il problema consiste nel sapere come sia possibile fondare esclusivamente a partire da se stessi valori che siano validi anche per gli altri (l’intervento di Dio, pur non essendo ancora escluso, è dunque esso stesso mediato dalla riflessione filosofica del soggetto e, in tal senso, dipendente da quest’ultimo). In breve, tutto sta nel sapere come sia possibile fondare, nell’immanenza radicale dei valori nella soggettività, la loro trascendenza sia di fronte a noi stessi che di fronte agli altri” (Luc Ferry, Homo Aestheticus. L’invenzione del gusto nell’età della democrazia).

Se prima il giudizio di gusto non può distinguere tra valori perché non esiste una pluralità degli stessi, tra gerarchie umane e sovrumane stabilmente situate, tra distanze (tra soggetti osservanti e oggetti osservati), con le rivoluzioni del pensiero cogitante (artistiche e filosofiche al tempo stesso) si opta per un cesura, che via via sarà sempre più netta, tra facoltà e capacità di valutazione: deve essere al tempo stesso individuale e soggettiva, il “buon gusto” di appartenenza aristocratica, e generale, ovvero portatrice di caratteri universali e quindi negoziabili, discutibili e confutabili. La gerarchia si rovescia completamente: ciò che competeva al divino, ora compete solamente più agli uomini. Dio dapprima diviene mediazione del pensiero umano, poi scompare completamente dall’orizzonte della valutazione. Il percorso di radicalizzazione della soggettività del giudizio, passando attraverso Kant, troverà naturale compimento nell’estetica di Nietzsche, nella “morte di Dio” e nell’avvento del “soggetto diviso”: solo l’interpretazione costituisce il fondamento di ciò che una cosa è per cui “una cosa ‘in sé’? E’ altrettanto assurda di un ‘senso in sé’! Non ci sono stati di fatto ‘in sé’”. In altro modo per Nietzsche l’essenza di una cosa non può che essere un’opinione sulla cosa stessa: “in questo senso il bello va posto nella categoria dei valori biologici dell’utile, del benefico, di ciò che incrementa la vita” (Nietzsche, Volontà di potenza)

Il potenziale dirompente di questo rovesciamento platonico è piuttosto evidente: soggetto tanto a sostegni quanto a critiche durissime (consiglio di leggere a questo proposito Carlo Ginzburg, Rapporti forza. Storia, retorica, prova), ha aperto un esito novecentesco non scontato: “(…) possiamo dire che in Nietzsche si trovi preannunciato il duplice aspetto fondamentale di tutti i movimenti d’avanguardia che hanno dato la loro impronta all’estetica del Novecento fino alla fine degli anni Sessanta: cioè, appunto, da un lato l’ultra-individualismo che, rifacendosi al valore rivoluzionario dell’emancipazione individuale nei confronti delle tradizioni, consacrerà l’innovazione quale criterio supremo del giudizio estetico, facendolo così rientrare nell’ambito della storicità; e dall’altro la preoccupazione iper-classica di assegnare all’arte una funzione di verità, o addirittura di metterla al pari con il progresso delle scienze, per consentirle di esprimere un realtà che, a differenza di quella cui faceva riferimento il classicismo originario (quello del Seicento), non è più razionale, armoniosa, euclidea, ma illogica, informe, caotica e non euclidea”. (Luc Ferry, 202)

E, per finire, Sangiorgi: “Il vino buono non può essere scollegato da un percorso personale, ma di certo frequentarlo aiuta a comprendere il senso della vita al di là della vicenda individuale, la relazione continua tra dentro e fuori, il suo svolgersi perenne. Il vino è un mezzo straordinario, a patto che se ne rispetti la libertà di sorprenderci, di coglierci impreparati. A noi il compito di farci trovare diversi” (Porthos 37, pag.10)

Forse…

Forse quella dei “vini naturali” è l’ultima avanguardia artistica del secolo scorso. Come si sia inserita tanto impunemente in questo (di secolo) e quali esiti potrà avere in futuro non è dato saperlo. Di sicuro ha chiesto e chiede di ripensare i meccanismi di relazione tra particolare e universale, tra soggetto e oggetto, tra forma, sostanza e mutazioni, tra radici e semi, tra esperito ed esperienza, tra vissuto e sorpresa. Fosse già solo per questo, il nostro debito nei suoi confronti sarebbe comunque considerevole.

Il vino armonico e il prestito dalle arti antiche

Nel 1975 Wladyslaw Tatarkiewicz dà alle stampe, a completamento della precedente opera (la Storia dell’Estetica), la ‘Storia delle sei Idee’ (Dzieje sześciu pojęć). Mentre la ‘Storia dell’Estetica’ è una storia degli autori, degli scrittori e degli artisti che hanno formulato idee sul Bello e sull’Arte, sulla Forma e sulla Creatività, la ‘Storia delle sei Idee’ si concentra sui problemi, sulle idee e sulle teorie estetiche che si sono succedute nel corso dei secoli. Dopo aver affrontato temi che spaziano dal concetto dell’Arte dall’antichità ad oggi, alla sua classificazione e suddivisione, al rapporto tra Arte e Poesia, Tatarkiewicz si concentra sulla concetto di Bello, fondato dalla Grande Teoria. Egli chiama così la concezione del bello nell’Antichità, dove per bellezza s’intende principalmente la proporzione fra le parti. Questa teoria è a suo dire fondamento duraturo, comprensivo e riconosciuto dell’intera sfera del Bello nella cultura europea: “I primi a formulare la Grande Teoria furono i Pitagorici. Secondo loro, la bellezza di un oggetto consiste nella proporzione delle parti; dunque, da qualcosa che può essere determinato con esattezza in forma numerica. I Pitagorici introdussero quindi la Grande Teoria nella sua versione ristretta. Essa nacque come generalizzazione dell’osservazione dell’armonia dei suoni: le corde di uno strumento producono suoni armonici, se il loro rapporto di lunghezza è espresso da numeri semplici(…) Una concezione analoga ben presto si estese al campo delle arti visive, all’architettura e alla scultura, come pure alla bellezza dei corpi viventi. Si rivolse alla sfera della vista come a quella dell’udito. I termini άρμονία e συμμετρìα (accordo e proporzionalità) rispondevano pienamente a questa teoria. Comunque che la teoria sia passata dalla arti visive alla musica, o anche che si sia formata in ambito figurativo in maniera autonoma e parallela, durante la Grecia classica, essa vigeva per entrambe le arti[1].”

La Grande Teoria si consolida in epoca medievale attraverso la lettura che Sant’Agostino fa di Boezio il quale sostiene nel suo ‘De institutione musica[2]’, che l’armonia musicale mundana (cosmica), derivante dagli astri[3] e non percepibile dall’uomo, si fonda sull’equilibrio dei quattro elementi presenti in natura – acqua, aria, terra e fuoco; così come la musica humana rappresenta l’armonia dell’uomo con sé stesso e di sé con il mondo. E per finire la musica instrumentis constituta, derivante dalle altre due, si costituisce attraverso il rapporto armonico dei suoni come imitazione della musica vocale: “Agli occhi del dotto medievale la musica rappresentava un incontro tra filosofia, teologia e pratica liturgica, l’una riflesso dell’altra su piani differenti. Seguendo la lezione del ‘Timeo’ platonico, la teoria musicale veniva vista come applicazione dell’ordine numerico su cui l’intero cosmo era fondato. Il canto era invece eco dei cori angelici in sempiterna lode del Creatore. In questa prospettiva, il concetto di harmonia veniva letto in chiave esemplaristica, ossia come processo di manifestazione dell’ordine archetipico nella gerarchia dell’Essere universale. La musica strumentale era qui imitazione della musica vocale. Questa era a sua volta  l’immagine nel tempo e nello spazio del canto angelico, superiore alla dimensione temporale e udibile solo attraverso l’’orecchio del cuore’ (simbolicamente, la conoscenza interioritatis hominis). I cori angelici (‘Trisagio’, ‘Alleluia’) costituivano infine lode e manifestazione nel suono metafisico della Perfezione divina, assimilata apofaticamente al silenzio. La teoria aritmetica delle proporzioni numeriche, in cui si descrivono vuoi le relazioni tra note musicali vuoi i ritmi, era a sua volta concepita esemplaristicamente come copia dell’ordine noumenico insito nella ‘mente di Dio[4]’.”

Sarà l’Illuminismo, soprattutto di matrice anglosassone, nel 1700, a mettere in forte discussione, su basi soggettivistico – espressive la Grande Teoria, che per rivoli diversi e riapparizioni carsiche è presente ancora oggi come descrittore del Bello e, se mi si permette, anche del Buono e del buon Gusto.

Molti fanno ancora oggi dell’armonia il punto non superabile nella valutazione di un vino.

 


[1] Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, Aesthetica Edizioni, Palermo 2011, pag. 135;

[2] Del 500 d. C. circa

[3] L’universo, secondo Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali.

[4] Ernesto Mainoldi, La filosofia della musica nel Medioevo, in http://lgxserver.uniba.it/lei/filmusica/fmclmed1.htm

Andreas Cellarius: Harmonia macrocosmica seu atlas universalis et novus, totius universi creati cosmographiam generalem, et novam exhibens, 1 gennaio 1661