Dialogo a distanza con Sandro Sangiorgi a partire dal suo “Il vino è dentro di noi” – Porthos 37

Porthos Trentasette

Ne approfitto

Ne approfitto. Approfitto del numero unico di Porthos, il 37. E approfitto di Sandro Sangiorgi e del suo scritto “Il vino è dentro di noi”. Approfitto anche degli studi che sto facendo in merito all’invenzione del giudizio di gusto nei secoli passati. Infine, approfitto della qualificazione di “naturale” connessa al vino. Non lo faccio per difendere qualcosa, perché l’ho già fatto. Non lo faccio neppure per entrare nel merito della discussione sul vino naturale, perché non è questo il tema.

Il vino naturale e la filosofia degli antichi

L’argomento di questo intervento è il tentativo di comprendere come il vino naturale, nelle parole di Sangiorgi, si collochi all’interno di una tradizione estetica molto antica e come questa si confronti con i percorsi attuali di conoscenza e di giudizio. Insomma, sposto lo sguardo senza distogliere l’attenzione.

Sangiorgi scrive (pag.11): “Il vino naturale ci ha riconsegnato il senso delle parole da usare per descrivere la complessità. Per esempio, il riferimento al concetto di “natura” per come l’aveva immaginato Galeno, comune ai mondi umano, animale, vegetale e minerale. Possiamo quindi definire naturale un vino di cui si è assecondata la natura; è “naturale” se lo si è aiutato a nascere senza ostacolare la relazione tra luogo, vitigno, consuetudine e condizioni di una specifica annata. Naturale come espressione della natura della sostanza, la sua temperatura, il suo stato. I sensi ci consentono di percepire, come il nostro sistema neuroendocrino di elaborare, lo spirito dell’essere animato. La lettura del vino naturale si basa essenzialmente sulla natura del soggetto esaminato. Quindi, cogliere se questa natura sia stata rispettata, sia stata espressa integralmente. La complessione di galenica memoria comprende il corpo e lo spirito, quando si parla di temperatura ci si riferisce al temperamento, la sua sostanza non è semplicemente il peso, una sorta di materia inanimata – sempre che ne esista davvero una – ma è anche il flusso, la forza”.

Presso gli antichi l’opera è concepita come un microcosmo: il bello è sempre considerato nella sua dinamicità come punto di equilibrio nell’oscillazione fra due estremi che sono costituiti dalla grazia (armonia) e dal sublime (contesa).

E ancora Sangiorgi: “Io fatico ad accettare che il profumo e il gusto possano ricevere due valutazioni diverse, come fossero due entità indipendenti generate da contesti separati.” (Porthos 37, pag.12)

Nel Filebo di Platone, il bello diviene la realizzazione della misura in cui si attuano una serie di corrispondenze tra il corpo e l’anima e fra queste e il cosmo: “Ed ecco ora che l’essenza (dynamis) del bene ci s’è rifugiata nella natura (physis) del bello perché certo misura giusta e proporzione accade che siano dovunque bellezza ed eccellenza”.

In epoca medievale Boezio (Roma, 475/477 – Pavia, 524/526) sostiene, nel suo ‘De institutione musica’, che l’armonia musicale mundana (cosmica) derivante dagli astri e non percepibile dall’uomo, si fonda sull’equilibrio dei quattro elementi presenti in natura – acqua, aria, terra e fuoco; allo stesso modo la musica humana rappresenta l’armonia dell’uomo con sé stesso e di sé con il mondo. E la musica instrumentis constituta, derivante dalle altre due, si forma attraverso il rapporto armonico dei suoni come imitazione della musica vocale: “Agli occhi del dotto medievale la musica rappresentava un incontro tra filosofia, teologia e pratica liturgica, l’una riflesso dell’altra su piani differenti. Seguendo la lezione del ‘Timeo’ platonico, la teoria musicale veniva vista come applicazione dell’ordine numerico su cui l’intero cosmo era fondato. Il canto era invece eco dei cori angelici in sempiterna lode del Creatore. In questa prospettiva, il concetto di harmonia veniva letto in chiave esemplaristica, ossia come processo di manifestazione dell’ordine archetipico nella gerarchia dell’Essere universale. La musica strumentale era qui imitazione della musica vocale. Questa era a sua volta l’immagine nel tempo e nello spazio del canto angelico, superiore alla dimensione temporale e udibile solo attraverso l’’orecchio del cuore’ (simbolicamente, la conoscenza interioritatis hominis). I cori angelici (‘Trisagio’, ‘Alleluia’) costituivano infine lode e manifestazione nel suono metafisico della Perfezione divina, assimilata apofaticamente al silenzio. La teoria aritmetica delle proporzioni numeriche, in cui si descrivono vuoi le relazioni tra note musicali vuoi i ritmi, era a sua volta concepita esemplaristicamente come copia dell’ordine noumenico insito nella ‘mente di Dio (Ernesto Mainoldi, La filosofia della musica nel Medioevo)”.

Quello che torna nella parole di Sangiorgi interessa i motivi di assonanza per cui il vino naturale nasce, è tale in altri termini, sia nella sua relazione di armonia (relazione dinamica) con il luogo, il vitigno, la consuetudine e le condizioni di una specifica annata, sia nelle sue particolarità essenziali: la temperatura, lo stato (di natura). I sensi ci aiutano dunque a percepire e a valutare questa corrispondenza. Nessuno degli elementi appena descritti appartiene ad un mondo a sé stante: il microcosmo del vino non fa parte di un più ampio macrocosmo della natura, ma vi corrisponde nelle sue peculiarità espressive. E i sensi, secondo la teoria umorale di derivazione ippocratico-galenica, sono essi stessi prodotto degli elementi costitutivi del cosmo (aria, terra, fuoco e acqua), delle stagioni, dei punti cardinali, delle età, degli umori e delle complessioni da essi derivanti. La bellezza, e dunque la bontà, non sono un mezzo di valutazione esterna al prodotto che si vuole giudicare, in questo caso il vino, ma condividono con esso e con la natura di cui fanno parte gli stessi strumenti e le medesime caratteristiche fondamentali. La differenza, di matrice aristotelica, è che la natura agisce le trasformazioni senza alcuno sforzo perché è immanente all’opera stessa (non ha altri fini al di fuori di sé), mentre l’artigiano opera razionalmente e volontariamente affinché la materia trovi la forma e la sostanza voluta in accordo con le leggi della natura.

Marsilio Ficino, ancora in pieno ‘400, nella Theologia Platonica de immortalitate animarum (1482), scrive: “Che cos’è l’arte umana? Una natura particolare che opera sulla materia dall’esterno. Che cos’è la natura? Un arte che dà forma alla materia dall’interno”.

La rottura epistemologica del 1600

Nell’antichità è l’ordine cosmico a fondare per gli uomini la validità dei valori e ad instaurare fra loro un possibile spazio comunicativo: “da Cartesio (31 marzo 1596 – 11 febbraio 1650) tutto il problema consiste nel sapere come sia possibile fondare esclusivamente a partire da se stessi valori che siano validi anche per gli altri (l’intervento di Dio, pur non essendo ancora escluso, è dunque esso stesso mediato dalla riflessione filosofica del soggetto e, in tal senso, dipendente da quest’ultimo). In breve, tutto sta nel sapere come sia possibile fondare, nell’immanenza radicale dei valori nella soggettività, la loro trascendenza sia di fronte a noi stessi che di fronte agli altri” (Luc Ferry, Homo Aestheticus. L’invenzione del gusto nell’età della democrazia).

Se prima il giudizio di gusto non può distinguere tra valori perché non esiste una pluralità degli stessi, tra gerarchie umane e sovrumane stabilmente situate, tra distanze (tra soggetti osservanti e oggetti osservati), con le rivoluzioni del pensiero cogitante (artistiche e filosofiche al tempo stesso) si opta per un cesura, che via via sarà sempre più netta, tra facoltà e capacità di valutazione: deve essere al tempo stesso individuale e soggettiva, il “buon gusto” di appartenenza aristocratica, e generale, ovvero portatrice di caratteri universali e quindi negoziabili, discutibili e confutabili. La gerarchia si rovescia completamente: ciò che competeva al divino, ora compete solamente più agli uomini. Dio dapprima diviene mediazione del pensiero umano, poi scompare completamente dall’orizzonte della valutazione. Il percorso di radicalizzazione della soggettività del giudizio, passando attraverso Kant, troverà naturale compimento nell’estetica di Nietzsche, nella “morte di Dio” e nell’avvento del “soggetto diviso”: solo l’interpretazione costituisce il fondamento di ciò che una cosa è per cui “una cosa ‘in sé’? E’ altrettanto assurda di un ‘senso in sé’! Non ci sono stati di fatto ‘in sé’”. In altro modo per Nietzsche l’essenza di una cosa non può che essere un’opinione sulla cosa stessa: “in questo senso il bello va posto nella categoria dei valori biologici dell’utile, del benefico, di ciò che incrementa la vita” (Nietzsche, Volontà di potenza)

Il potenziale dirompente di questo rovesciamento platonico è piuttosto evidente: soggetto tanto a sostegni quanto a critiche durissime (consiglio di leggere a questo proposito Carlo Ginzburg, Rapporti forza. Storia, retorica, prova), ha aperto un esito novecentesco non scontato: “(…) possiamo dire che in Nietzsche si trovi preannunciato il duplice aspetto fondamentale di tutti i movimenti d’avanguardia che hanno dato la loro impronta all’estetica del Novecento fino alla fine degli anni Sessanta: cioè, appunto, da un lato l’ultra-individualismo che, rifacendosi al valore rivoluzionario dell’emancipazione individuale nei confronti delle tradizioni, consacrerà l’innovazione quale criterio supremo del giudizio estetico, facendolo così rientrare nell’ambito della storicità; e dall’altro la preoccupazione iper-classica di assegnare all’arte una funzione di verità, o addirittura di metterla al pari con il progresso delle scienze, per consentirle di esprimere un realtà che, a differenza di quella cui faceva riferimento il classicismo originario (quello del Seicento), non è più razionale, armoniosa, euclidea, ma illogica, informe, caotica e non euclidea”. (Luc Ferry, 202)

E, per finire, Sangiorgi: “Il vino buono non può essere scollegato da un percorso personale, ma di certo frequentarlo aiuta a comprendere il senso della vita al di là della vicenda individuale, la relazione continua tra dentro e fuori, il suo svolgersi perenne. Il vino è un mezzo straordinario, a patto che se ne rispetti la libertà di sorprenderci, di coglierci impreparati. A noi il compito di farci trovare diversi” (Porthos 37, pag.10)

Forse…

Forse quella dei “vini naturali” è l’ultima avanguardia artistica del secolo scorso. Come si sia inserita tanto impunemente in questo (di secolo) e quali esiti potrà avere in futuro non è dato saperlo. Di sicuro ha chiesto e chiede di ripensare i meccanismi di relazione tra particolare e universale, tra soggetto e oggetto, tra forma, sostanza e mutazioni, tra radici e semi, tra esperito ed esperienza, tra vissuto e sorpresa. Fosse già solo per questo, il nostro debito nei suoi confronti sarebbe comunque considerevole.

Le persone eccezionali sono melanconiche, lussuriose e bevono vino nero.

totò

Nel suo “De Mundi Costitutione” (cosmologia anteriore al 1135), il filosofo Anon riprende la teoria della medicina ippocratica sugli umori: “Esistono infatti quattro umori nell’uomo, che imitano i diversi elementi; aumentano ognuno in stagioni diverse, predominano ognuno in una diversa età. Il sangue imita l’aria, aumenta in primavera, domina nell’infanzia. La bile gialla imita il fuoco, aumenta in estate, domina nell’adolescenza. La bile nera, ovvero la melanconia imita la terra, aumenta in autunno, domina nella maturità. Il flegma imita l’acqua, aumenta in inverno, domina nella vecchiaia. Quando questi umori affluiscono in misura non superiore né inferiore al giusto, l’uomo prospera[1]”.

Senza volersi spingere oltre sulla conoscenza dell’antica medicina greca, per ogni amante di vino che si rispetti, e per ogni atrabile di arcaica fede, mi è sembrato opportuno riportare un breve passo di Aristotele, o forse di un suo pseudo, a proposito dell’affinità caratteriali tra un bevitore di vino nero e un melanconico. Il vino, come la natura, regola con il caldo ogni funzione dell’organismo. Ma, a differenza della seconda, soltanto momentaneamente. Il vino contiene aria, così come la natura del temperamento bilioso è dettata dal medesimo elemento. La dimostrazione ci viene fornita dalla schiuma che il vino nero, più del bianco, produce: “il vino, a seconda della sua temperatura e della quantità bevuta, produceva i più svariati effetti emotivi, rendendo gli uomini allegri o tristi, chiacchieroni o taciturni, deliranti o apatici, così anche la bile nera provocava le più svariate condizioni mentali. La differenza fondamentale, rispetto agli effetti del vino, era che gli effetti della bile nera non sempre erano temporanei, anzi diventavano caratteristiche permanenti allorché essa aveva una naturale prevalenza e non era raffreddate o infiammata per semplice azione morbosa. (…) era chiaro che coloro nel cui corpo la bile nera aveva un ruolo predominante necessariamente dovevano essere anche mentalmente “anormali” in un modo o nell’altro.

Una volta acquisito, questo veniva a costituire una premessa per dimostrare la tesi che tutti gli uomini eccezionali erano dei melanconici. Certamente solo una premessa, dato che per sviluppare fino in fondo l’argomentazione era necessario dimostrare che (e anche in quali circostanze) l’“anormalità” dei melanconici poteva consistere in un talento anormale[2].”

Il vino nero si associa, poi, all’erotismo e alla lussuria, poiché l’eiaculazione, così come l’impulso erotico, sono spinti anch’essi dall’aria.

Ma veniamo allo Stagirita.

Perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria, hanno un temperamento «melanconico» – ovvero atrabiliare – alcuni a tal punto da essere persino affetti dagli stati patologici che ne derivano? (…) È soprattutto il vino – non certo il miele o il latte o l’acqua né alcun altro elemento simile – che, bevuto in grande quantità, sembra rendere le persone tali quali diciamo essere i melanconici, e produrre svariati caratteri: gli iracondi, i filantropi, i compassionevoli, i violenti. Si può constatare che determina ogni sorta di comportamento, qualora si osservi come gradualmente muta i bevitori: se li coglie freddi e silenziosi, bevuto in quantità modesta li rende più ciarlieri, ma parlatori abili e arditi se la dose aumenta; conferisce baldanza nelle opere a chi continua a bere, ma se la quantità è eccessiva rende sfrenati ed esaltati, e quando è decisamente troppa toglie ogni inibizione e fa impazzire, come se si fosse epilettici dall’infanzia o assai affini agli melanconici.

    L’indole di individui diversi corrisponde così a quei mutamenti di carattere provocati nel singolo dal bere e dall’ingerire una data quantità di vino. Si può essere dunque ciarlieri, agitati, facili al pianto, per natura o per un passeggero stato di ebbrezza: tali infatti, alcuni vengono resi dal vino, come secondo la rappresentazione omerica:    

    «e dice che, appesantito dal vino, versò lacrime copiose».  

    C’è chi diviene compassionevole o selvaggio o taciturno: quest’ultima, in particolare, è la caratteristica precipua dei «melanconici» che finiscono con l’uscire di senno. Il vino rende anche espansivi: ne è indizio che chi ha bevuto è indotto anche a baciare chi, per l’aspetto e per l’età, nessuno bacerebbe da sobrio.

    Il vino, tuttavia, non rende eccezionali per molto, ma per poco tempo: la natura, sempre, finché si viva – arditi, taciturni, compassionevoli, vili- lo si è, infatti, per sempre; è allora evidente che il vino e la natura determinano il carattere di ognuno con lo stesso procedimento, che consiste nel regolare con il caldo ogni funzione dell’organismo.

    Bisogna tener presente che l’aria costituisce l’elemento fondamentale dell’umore e della composizione atrabiliari: per questo i medici affermano che flatulenze, asma e dolori addominali sono disturbi tipici dei «melanconici». Anche il vino ha la proprietà di contenere aria, e quindi è affine per natura al tipo di complessione descritto. Tale sua proprietà è dimostrata dalla schiuma: l’olio infatti, pur essendo caldo, non fa schiuma, mentre il vino sì, e il nero più del bianco, perché più caldo e più denso. Per questo dunque il vino eccita all’impulso erotico, e non a caso si dice che Dioniso e Afrodite abbiano stretti rapporti. I temperamenti «melanconici» sono, per la maggior parte, lussuriosi, proprio perché l’impulso erotico è caratterizzato da un’emissione d’aria. Ne è prova il membro virile, che da piccolo rapidamente, enfiato, si ingrossa; e ancora prima che l’eiaculazione sia possibile, a chi, cioè, è ancora ragazzo ma ormai prossimo alla pubertà, deriva un certo intemperante piacere dalla manipolazione dei genitali, evidentemente perché l’aria fuoriesce dai pori, destinati poi a far passare il liquido spermatico. L’emissione di quest’ultimo durante i rapporti sessuali, e l’eiaculazione, avvengono evidentemente ad opera dell’aria che spinge fuori, sì che a buon diritto sono ritenuti afrodisiaci i cibi e le bevande che accumulano aria nella zona erogena. Il vino nero ha quest’efficacia più di ogni altra sostanza, e analogamente anche i temperamenti atrabiliari sono impregnati d’aria. (…)

Se la complessione è più fredda di quanto sia opportuno causa avvilimenti senza ragione, così forti che i giovani, e talora anche i vecchi, giungono per essi ad impiccarsi; molti, poi, si uccidono dopo essersi dati ai bagordi, mentre altri «melanconici», dopo aver bevuto, si ritrovano in uno stato di sconforto, in quanto il calore del vino spegne il calore naturale. Il calore localizzato intorno all’organo con cui ragioniamo e speriamo rende euforici. Per questo tutti si danno volentieri a bere fino all’ubriachezza, poiché il vino bevuto senza parsimonia rende pieni di speranza, ha lo stesso effetto che sui ragazzi la gioventù: la vecchiaia, infatti, rifiuta la speranza, mentre la giovinezza trabocca di essa. Ci sono infine, alcuni pochi che vengono colti da sconforto mentre bevono, per la stessa ragione che rende tali altri dopo aver bevuto. Se lo sconforto si determina per l’estinguersi del calore organico, è ancora maggiore la tentazione di impiccarsi: il che accade ai giovani o ai vecchi; a questi la vecchiaia estingue il caldo, a quelli la predisposizione fisiologica (fisiologico è pure il calore che viene estinto). (…)

 Ricapitolando, dunque: essendo diversa l’azione dell’atrabile (melanconico), che può essere assai fredda e assai calda, diversi sono anche gli atrabiliari; poiché fra gli elementi che ci costituiscono il caldo e il freddo hanno la maggiore influenza sul carattere, l’atrabile possiede una notevole capacità di formare la psiche determinando l’appartenenza categoriale di ognuno di noi, come il vino quando in quantità maggiore o minore si mescola nel corpo; entrambi, il vino e l’atrabile, contengono aria; poiché è possibile che questa diversità sia ben dosata, raggiungendo uno stato ottimale, cioè una composizione calda e poi di nuovo fredda secondo le esigenze, o viceversa, proprio in virtù del suo eccesso, tutti gli atrabiliari – i «melanconici» – sono persone eccezionali non per malattia ma per natura”. [3]

[1] R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la Malinconia, Einaudi, Torino 1983, pag. 7.

[2]  Ibidem, pp. 27 – 35

[3] Aristotele, La melanconia dell’uomo di genio, a cura di C. Angelino e E. Salvaneschi, Il Melangolo, Genova 1981, pp. 11-27

La foto è tratta da http://lilithallospecchio.wordpress.com/2014/02/10/la-filosofia-del-cornuto-principe-antonio-de-curtis/