Nell’antica Roma si ereditava solo il vino o anche le anfore in cui era contenuto?

Iniziazione bacchica in un affresco nella Villa dei misteri a Pompei antica. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=156518

Il legato, nell’antica Roma, era un lascito testamentario: oggetto del legato potevano essere un diritto reale, un diritto di credito, la remissione di un debito (legatum liberatiònis), una quota di eredità (legatum partitiònis), una rendita alimentare ed altro. “Il processo di avvicinamento tra i gènera legatòrum raggiunse il culmine nel diritto giustinianeo, allorché, si stabilì che i legati avevano tutti unam naturam, cioè una sola natura, e i vari tipi di legato si fusero insieme. In caso di pluralità di legatari, si distinguevano due ipotesi:

  1. vi era coniùnctio re et verbis, se il legato spettava a più chiamati ed in caso di morte o rifiuto di uno di essi, la sua parte restava nel patrimonio ereditario;
  2. vi era coniunctio re, se l’erede aveva a suo carico tante obbligazioni con oggetto uguale, quanti erano i legatari”. (Cfr. https://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&id=1597&dizionario=3)

Proprio nel Digesto giustinianeo (Giustiniano I), suddiviso in 50 libri che contenevano i frammenti delle opere di giuristi romani e promulgato il 16 dicembre del 533 d.C., troviamo il frammento di Domizio Ulpiano[1], contenuto nel Liber XX ad Sabinum, a proposito del legato del vino: «Si vinum legatum sit, videamus an cum vasis debeatur. Et Celsus inquit, vino legato, etiamsi non sit legatum cum vasis vasa quoque legata videri; non quia pars sunt vini vasa, quemadmodum emblemata argenti, scyphorum forte vel speculi, sed quia credibile est mentem testantis eam esse ut voluerit accessioni esse vino amphoras, et sic (inquit) loquimur habere nos amphoras mille ad mensuram vini referentes. In doliis non puto verum, ut, vino legato, et doliis debeantur, maxime si depressa in cella vinaria fuerint, aut ea sunt quae per magnitudinem difficile moventur. In cuppis autem sive cuppulis puto admittendum et ea deberi,nisi pars modo immobiles in agro veluti instrumentum agri erant. Vino legato utres non debuntur nec culeos quidem deberi dico (D. 33, 6, 3 § 1)».

Così la traduzione di Iole Fargnoli[2]: «Se è legato del vino; vediamo se sia dovuto assieme ai suoi contenitori. Celso dice che quando il vino è legato, anche se non è legato con i contenitori, essi appaiono ugualmente essere legati, non perché i contenitori sono parti del vino, come per esempio gli ornamenti all’argento (così come deve essere per le coppe o lo specchio), ma perché è verosimile che l’intenzione del testatore fosse quella di considerare le anfore come fossero un’accessione al vino; è cosi, disse, noi parliamo di avere un migliaio di anfore, riferendoci alla quantità di vino. Dove le botti sono interessate, io non penso che sia vero che quando ii vino sia legato, anche le botti siano dovute, specialmente se esse sono fissate nella cella vinaria o sono difficili da spostare a causa della loro dimensione. Tuttavia, nel caso di tini o tinozze, penso che debba ammettersi che esse sono pure dovute, a meno che esse siano allo stesso modo inamovibilmente fissate al suolo così da essere un instrumentum della terra. Quando il vino è legato, gli otri non saranno dovuti; io dico che non sono dovute neanche le sacche di pelle».

Tale regola giustinianea venne poi avvalorata nella Magna Glossa da un “commento” di Bartolo da Sassoferrato (Sassoferrato, 1314 – Perugia, 13 luglio 1357). Quello che a noi interessa è notare come la metonimia contenuta nella espressione del “testatore”, «…sed quia credibile est mentem testantis eam esse ut voluerit accessioni esse vino amphoras, et sic (inquit) loquimur habere nos amphoras mille ad mensuram vini referentes», ovvero «…ma perché è verosimile che l’intenzione del testatore fosse quella di considerare le anfore come fossero un’accessione al vino; è cosi, disse, noi parliamo di avere un migliaio di anfore, riferendoci alla quantità di vino» entri, di fatto, nella prassi consolidata dell’esecuzione dell’intenzionalità testamentaria. Al contrario, con ciò che non può essere spostato, come i tini e le tinozze, perché fissato nel terreno oppure che rappresenta un mezzo di trasporto estemporaneo, di transito veloce, come gli otri o i sacchi in pelle (recipienti fatto di pelle di capra conciata e cucita), allora il vino viene s-legato dal rapporto di complementarietà necessaria e indissolubile e la metonimia perde la forza del diritto.

[1] Ulpiano, Domizio. – Giurista romano (m. 228). Praefectus praetorio assieme a Paolo, è uno dei cinque giuristi indicati dalla cosiddetta legge delle citazioni (426) di Teodosio II e Valentiniano III, come coloro alle cui dottrine dovevano attenersi i giudici nella decisione delle controversie. Le sue opere maggiori sono i due commentari ad edictum in 81 libri e ad Sabinum in 51 libri. (da Treccani,.it)

[2] Iole Fargnoli, Cibo e diritto in età romana, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag. 64