Pompei, le taverne e il vino

Di Daniele Florio from Rome, ITALY – Il “thermopolium” di Lucio Vetuzio Placido a Pompei. L’affresco rappresenta il genio della casa, affiancato dai Lari e dai Penati con Mercurio sull’estrema sinistra e Bacco sull’estrema destra. Pompei, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2930141

La antiche taverne pompeiane: cuponae, oenopolia, tabernae vinariae e il thermopolium

All’interno dei testi antichi le taverne di Roma, così come di quelle a Pompei, sono indicate attraverso i termini “popina” e “caupona”: il primo viene dapprima adoperato come sinonimo di “coquina”, per sostituire il greco ϑερμοπώλιον (thermopolium). Successivamente “coquina” denoterà “l’arte del cucinare”, mentre “popina” l’edificio1. Nella sostanza cuponae, oenopolia o tabernae vinariae e poi solo tabernae sono sostanzialmente usati come sinonimi: posizionate in vicinanza delle porte urbiche, sia dentro che fuori dalla città, sono di maggior comodo per la popolazione di passaggio: così a Pompei non è difficile trovare fianco a fianco la caupona di Epàgato e l’Hospitium Hermetis con mansioni di osteria. Presso la porta Ercolanese la taberna Phoebi e la taberna Fortunatae: «Secondo il Lexicon Totius Latinitatis una caupona è infatti una taberna in cui commercianti di ogni genere vendono le loro merci ma soprattutto in cui i caupones vendono vino e commestibili e accolgono i viandanti. Abbastanza diffuse sono anche le parole hospitium, albergo, e stabulum, che aggiunge la possibilità di alloggiare bestie e animali. L’arredamento interno si concentra attorno al bancone, che occupa una posizione predominante lungo la facciata della bottega e che assume prevalentemente la caratteristica forma ad L con un braccio ripiegato all’interno, anche se è possibile trovarne alcuni anche a tre o quattro bracci; come appendice, nel punto di connessione tra bancone e muro vi sono poi talvolta dei gradini che fungono da espositori per le merci in vendita. … Sempre presso il bancone doveva esserci una zona adibita a focolare sulla quale venivano poste le braci ancora calde e dove talvolta sono state rinvenute caldaie e fistulae per l’immissione dell’acqua2».

Il banco di marmo, su cui poggia varia suppellettile mobile in bronzo o in terracotta, è attrezzato mediante fori rotondi che possono ospitare grossi recipienti di vino; quindi sulla breve gradinata marmorea o di pietra a un’estremità del banco, in direzione della parete, vengono messi in mostra ampolle e vasi potori. Infine, sulle pareti interne ed esterne i motivi pittorici: su quella di Epàgato un’immagine di Bacco; alla porta dell’Hospitium Hermetis un uomo ricurvo a versare il contenuto di un’anfora in un dolio3.

Il thermopolium che, come abbiamo visto verrà assorbito nominalmente, nasce come banco di vendita delle bevande calde: prima di quello trovato negli ultimi scavi pompeiani, quello più noto è il Thermopolium Asellinarum in via dell’Abbondanza. La sua presenza viene annunciata da un’insegna a fianco del corpo della fabbrica sul quale si apre il negozio: il banco è disseminato di fornelli per tenere in caldo le bibite. Spesso, comunque, si tratta ancora una volta di vino tenuto in infusione con miele, garofani o altre spezie. In corrispondenza al locale di servizio sorge spesso una stanza con funzioni di magazzinaggio. Al piano superiore l’abitazione del proprietario e, in alcuni casi, altre stanze votate alle libagioni. Diverse raffigurazioni pompeiane indicano che, all’interno delle tabernae, delle couponae o dei thermopoli, il cliente viene servito seduto: nel thermopolium della via di Mercurio un soldato armato di lancia tende la sua coppa ad un servitore che versa il contenuto sorreggendo una lagona (fiasca) nell’altra mano. Dice il soldato al servitore: “Da frida pusillum” (Dà un po’ di acqua fresca).

I vasi in uso sono prevalentemente i dolia, privi di iscrizioni e ornamenti, che vengono per lo più interrati e da cui il vino viene attinto grazie ad un mestolo dal lungo manico dritto (simpulum o trua), e le amphorae, che portano quasi sempre un marchio di fabbrica (Ex Officina Umbrici Scauri ad esempio) e che sono a lungo corpo cilindrico o troncoconico con piede a punta per essere infilate nel terreno umido. Altri vasi panciuti di più modesta consistenza sono i cadi e le olloe, e il vasellame ancor più piccolo, di bronzo lavorato, che va sotto il nome di oinochòe; quindi gli askòi metallici o in vetro e i passini o colatoi in bronzo e, per finire, la stiula in bronzo destinata, pare, a mantenere in fresco altri contenitori in vetro o in metallo.

I vini della Campania felix

Nell’antica Roma quando si parla di vini di sicuro pregio si fa riferimento, pressoché esclusivo, alla Campania felix (“Hinc felix illa Campania est”, Plinio, Naturalis Historia – Liber III) e al territorio, posizionato a settentrione, tra il monte Massico e il Volturno in corrispondenza con l’odierna Piana di Carinola che va sotto il nome di ager Falernus4. Così Orazio: “Caro Mecenate, tu sarai solito bere Cecubo e Caleno5, ma6 nelle mie coppe non si mesce né il Formiano né il Falerno7”. Plinio assegna al Falerno il secondo posto (secunda nobilitas Falerno agro erat, Plin, 14, 62) nella scala dei vini del suo tempo, anche se afferma, subito dopo, che è però il più autorevole dalla scomparsa del Cecubo e ne definisce tre tipologie: austerum, dulce, tenue. Tibullo nomina quel territorio “Bacchi cura”, mentre Marziale si sofferma sul suo colore nero a cui oppone la mano candida del coppiere, la limpidezza cristallina del calice e la neve che viene utilizzata, talvolta, per rinfrescarlo: “Adstabat domini mensis pulcherrimus ille marmorea fundens nigra Falerna manu, et libata dabat roseis carchesia labris quae poterant ipsum sollicitare Iovem (VIII 55 [56])” (Stava il giovane bellissimo presso la mensa del padrone, versando il nero Falerno con la mano candida come il marmo, e offriva le coppe delibate dalle sue labbra rosee, che avrebbero potuto tentare lo stesso Giove). Tutti gli autori antichi (Orazio, Marziale, Giovenale, Tibullo) concordano nella generosità del Falerno, nel suo alto tenore alcolico (ardens), nella sua robustezza, nel timbro amaricante e nella sua quasi impenetrabilità tale da rendere necessaria una diluizione e uno stemperamento dei suoi caratteri più aggressivi o con il miele dell’Imetto8 o con altro vino proveniente da Chio o, meglio, con l’acqua per spegnere l’incendio che arde: “Quis puer ocius restinguet ardentis Falerni pocula praetereunte lympha? (Odi II, XI)” (Quale ragazzo smorzerà velocemente il boccale di ardente Falerno con l’acqua limpida che scorre dalla fonte?” E del profumo intenso e perdurante del Falerno ne parla Fedro nel Libro III, Fabularum Phaedriliber tertius: “Anus iacere vidit epotam amphoram, Adhuc Falerna faece ex testa nobili Odorem quae iucundum late spargeret. Hunc postquam totis avida traxit naribus: “O suavis anima. quale te dicam bonum Antehac fuisse, tales cum sint reliquiae?” Hoc quo pertineat, dicet qui me noverit”; “VIde una Vecchia un orcioletto vuoto Giacer negletto, in cui v’eran rimasi D’un ottimo Falerno vecchi avanzi. La cui fragranza d’ogni intorno sparsa, Con le narici quanto pote, attratta, O che soave odor! gli dice: O quanto Di buono sarà stato in te una volta, Se tanto n’hanno i rimasugli ancora! Ciò ch’io dir voglio, sa chi mi conosce” (traduzione di Alessandro Marchetti, Venezia 1797). Marziale, per l’encomio più alto, afferma che il Falerno è un vino immortale: invecchia come i nobili e grandiosi vini, ma non muore mai. Ateneo9, che distingue il Falerno secco da quello dolce, afferma che quello migliore è da bersi intorno ai 10 anni, ma che può mantenersi nel pieno vigore sino ai 15, 20 anni.

Lo scomparso Cecubo, proveniente dal triangolo tra Terracina, Fondi e Formia, è il vino solenne, raro, costosissimo, delle occasioni come quella in cui Orazio invita a festeggiare per la morte di Cleopatra: “Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus, nunc Saliaribus ornare pulvinar deorum tempus erat dapibus, sodales. Antehac nefas depromere Caecubum cellis avitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat (Orazio, Libro I, ode 37); “O amici, ora bisogna brindare, ora bisogna danzare, era ora di ornare le immagini degli dei con cibi degni dei [sacerdoti] Salii. Prima di ora non era lecito spillare il cecubo dalle cantine degli antenati, mentre una regina preparava folli rovine per Campidoglio e per l’Impero con un gregge di uomini turpi contaminato dalla perversione, sfrenata nello sperare qualsiasi cosa ed ubriaca per la dolce fortuna”. Secondo Galeno il nome Cècubo deriverebbe dalla sua vetustà e dal colore biondo tendente al rosso.

Il vino Caleno, proveniente da Calvi-Risorta un piccolo centro poco distante da Capua, è un vino assai fine molto amato da Giovenale che lo cita a proposito della sfilata delle maggiori brutture di Roma in cui arriva una potente matrona, molto abile a porgere al marito assetato il bicchiere, salvo mescolarvi dentro del veleno di rospo. Costei viene ironicamente appellata in antonomasia Lucusta10 (Saturae, 1, 69-72): “Occurrit matrona potens, quae molle Calenum porrectura viro miscet sitiente rubetam instituitque rudes melior Lucusta propinquas per famam et populum nigros efferre maritos”; “Si presenta una dama impettita che al marito assetato propina nettare di Cales mescolato con veleno di rospo e alle sue parenti inesperte insegna, meglio di Locusta, come seppellire le spoglie grigie dei mariti tra le chiacchiere della gente”. Citato in più passi da Orazio e tenuto in ottima considerazione da Marziale, al tempo di Plinio viene considerato come un grande vino, ma del passato.

E il vino Formiano, prodotto nel territorio dell’antica Formiae, nel Golfo di Gaeta dove Cicerone ha la sua meravigliosa villa, di cui si sono perse le tracce tanto che Andrea Bacci11, nel Cinquecento, si lamenta che al suo tempo non vi trovassero che vigne e vini mediocri. Attestano, in epoca romana, la grandezza dei campi e delle vigne di Formia i versi di Orazio e le valutazioni di Strabone12 e di Plinio13.

I vini di Pompei.

Il Vesuvio visto da Pompei in una stampa degli anni 1890 The Library of Congress from Washington, DC, United States – General view and Vesuvius, Pompeii, Italy, No restrictions, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=66464224

Il 24 ottobre14 del 79 d.c., Plinio il Vecchio, grande naturalista, è praefectus classis Misenensis della flotta romana dislocata a Miseno e, al manifestarsi della eruzione del Vesuvio, organizza una nave per andare a vedere più da vicino cosa sta avvenendo e per aiutare alcuni suoi amici in difficoltà sulle spiagge della baia di Napoli e lì perde la vita probabilmente soffocato dalle esalazioni vulcaniche. Suo nipote, Caio Plinio il Giovane15, nelle lettere a Tacito, lascia una straordinaria testimonianza sull’inizio dell’eruzione che, insieme allo zio, osserva da Miseno. Vede una nube molto densa elevarsi in direzione del Vulcano e scrive: “Non posso darvi una descrizione più precisa della sua forma se non paragonarla a quella di un albero di pino; infatti si elevava a grande altezza come un enorme tronco, dalla cui cima si disperdevano formazioni simili a rami. Sembrava in alcuni punti più chiara ed in altri più scura, a seconda di quanto fosse impregnata di terra e cenere… Alla fine quella tenebra diventò quasi fumo o nebbia e subito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido come suole essere quando si eclissa”.

Marziale, successivamente, ricorderà così quelle terre e quei vigneti:

Ecco il Vesuvio, un tempo verdeggiante

di folte vigne, un tempo produttore

d’un eccellente vino: questo è il monte

che Bacco amò più dei colli di Nysa:

su queste balze i satiri danzarono

in coro. E questa fu Pompei, città

prediletta da Venere, a lei cara

più della stessa Sparta,

e questa fu Ercolano, dedicata

al nome del grande Ercole.

Vedi, ora tutto è annerito, sommerso

dal fuoco e dalla cenere: gli Dei

si pentono di quello che hanno fatto.

E poi l’uva di cui parla Columella16 viene da vigneti che ricoprono i “celeberrimos Vesuvii colles Surrentinosque”, ovvero “i frequentatissimi (e dunque famosi) colli del Vesuvio e quelli Sorrentini” battuti dallo Zefiro e dal Libeccio: l’uso del temine collis ed il riferimento ai due venti induce a stabilire un parallelo di esposizione tra le due serie di colline, nelle quali viene più agevole identificare le due penisole, sorrentina e cumana “Et hae quidem utraeque Amineae. Verum et aliae duae geminae ab eo quod duplices uvas exigunt, cognomen trahunt, austerioris vini, sed aeque perennis. Earum minor vulgo notissima, quippe Campaniae celeberrimos Vesuvii colles Surrentinosque vestit, hilaris inter aestivos Favonii flatus Austris affligitur.”; “E queste sono de varietà di Aminnea: ma ce ne sono altre due, dette gemelle, perché producono grappoli doppi, e un vino più secco, ma che si conserva tanto quanto l’altro. La piccola Aminnea gemella è molto nota, perché riveste i frequentatissimi colli campani di Vesuvio e del Sorrento; lussureggiante quando è esposta ai soffi estivi del Ponente, soffre invece se è colpita dal vento di Mezzogiorno”.

Plinio, alcuni anni dopo Columella, riprendendone in sostanza il giudizio, attribuisce alle uve Aminneae il primo posto “per la robustezza del loro vino, che prende corpo sempre di più con l’invecchiamento. Ne esistono cinque varietà. la germana minore ha una migliore fioritura, sopporta le piogge e le intemperie, non così fa la maggiore, la quale però soffre meno sull’albero che legata sulla traversa. Le gemelle, che devono il loro nome dall’uva dai chicchi sempre doppi, danno un vino di gusto molto aspro, ma particolarmente corposo; la varietà piccola non tollera l’austro (un vento che spira da sud), mentre le giovano tutti gli altri venti, per esempio quelli che soffiano sul Vesuvio o sulle colline intorno a Sorrento, nelle restanti zone d’Italia li sopporta solo se è legata ad un albero. La quinta specie è la ‘lanosa’; non ci occorre ammirare i Seri (Cinesi) o gli Indiani: tale è lo strato di lanuggine che la ricopre. E’ la prima tra le Aminneae a maturare, ma con altrettanta rapidità marcisce17”; “Principatus datur Aminneis firmitatem propter senioque proficientem vini eius utique vitam. quinque earum genera. Ex iis germana minor acino melius deflorescit, imbres tempestatesque tolerat, non item maior, sed in arbore quam in iugo minus obnoxia. Gemellarum, quibus hoc nomen uvae semper geminae dedere, asperrimus sapor, sed vires praecipuae. ex iis minor austro laeditur, ceteris ventis alitur, ut in Vesuvio monte Surrentinisque collibus, in reliquis Italiae partibus non nisi arbori accommodata. Quintum genus lanatae. Ne Seras miremur aut Indos adeo, lanugo eam vestit. Prima ex Aminneis maturescit ocissimeque putrescit”.

Vino puro e vino conciato.

La cucina aristocratica dell’antica Roma si impernia sull’idea di artificio, di elaborazione e di commistione dei gusti che, all’interno dello stesso piatto, trovano adeguato spazio e condivisa soddisfazione: non è inusuale, infatti, avere, al medesimo tempo, sapori piccanti, dolci, amari, acidi e salati. Le ragioni, naturalmente, sono più d’una, ma occorre non dimenticare che l’apporto di sostanze diverse contenute nei cibi va incontro non soltanto ai piaceri di un’epoca: è, secondo le teorie dietetiche ereditate dalla medicina di Ippocrate ed elaborate successivamente da Galeno, la condizione necessaria del corpo perché riceva un apporto nutritivo completo e indispensabile, ad ognuno secondo le proprie condizioni fisiche, sociali, anagrafiche, temporalmente e geograficamente situate, per riequilibrare gli umori corporei. Se la cucina è artificio, il vino non è da meno.

Il vino puro si colloca come un importante intermediario tra gli uomini e gli dei: “Il vino ha una parte importante nelle libagioni, che spesso accompagnano e propiziano un sacrificio, il misterioso rituale che consente di accedere al sacro, in cui gli uomini condividono un prodotto della terra con gli dei o con i defunti (libare: prendere una parte di qualcosa). Le bevande fermentate, in primis il vino, sono le più indicate per le libagioni, in quanto l’ebbrezza che procurano somiglia a una trasformazione magica e dà accesso a uno stato prossimo al sacro. Il vino impiegato per questo scopo, come testimoniano le fonti antiche, è il temetum, vinum merum, vino puro, la cui importanza nella società romana (in particolare arcaica) è enorme, proprio in quanto medium della relazione tra gli uomini e gli dei (da cui la donna è esclusa)18”. Come abbiamo potuto vedere a proposito degli autori citati precedentemente il vino puro non solo è ben conosciuto, ma è grandemente apprezzato in funzione della sua capacità di portare piacere e di invecchiare a lungo, molto a lungo. Abbiamo anche visto come alcuni di questi grandi vini, il Falerno in testa, siano molto corposi, neri19 alla descrizione visiva e molto probabilmente estremamente concentrati ed alcolici. Con la possibilità, non remota, di portare con sé difetti di fermentazione, di conservazione etc. Ecco che, allora, trattare i vini significa contemporaneamente risolvere più questioni nello stesso tempo: la prima, già accennata, riguarda la sintonia tra artificio culinario e artificio della bevuta. Così come il cibo viene incessantemente elaborato e trattato con spezie, condimenti, dolcificanti, allo stesso modo il vino corrisponde all’elaborazione di un gusto complesso che tiene a sé tutti i sapori possibili; la seconda è quella di rendere maggiormente potabili vini altamente concentrati: l’acqua, alla maniera greca, è il mezzo più adatto a questo scopo. E, infine, da non dimenticare mai nella storia del vino, il trattamento del vino come mezzo di inganno, di raggiro e di guadagno indebito. Ovviamente non si può pensare che le prime due condizioni assolvano necessariamente all’ultima. In un elenco non esaustivo è bene ricordare nel novero dei vini il protropum, o mosto vergine, poverissimo di alcol; il mulsum, vino liquoroso dolcificato con il miele20; il defrutum, prevalentemente un mosto cotto: secondo Palladio si chiama defrutum, da defervere (finire di fermentare) quello ottenuto mediante una forte schiumatura; carenum quando si riduce dei ⅔ e sapa a ⅓. Dunque il passum, vino passito di varie fatture, di cui le più famose sono il psizio21, il melampsizio e lo scibelite22; il vino tortivo o circumcidaneum, ottenuto dalle seconde torchiature; il vino praeliganeo, ovvero un vino precoce che si prepara, secondo Catone, con uvaggio (uve miscellae). Poi i vini salsi, ottenuti con l’aggiunta di sale o di acqua di mare; i vini impeciati o resinati (vina picata) ottenuti con l’aggiunta di pece o di resina. La pece non viene usata solo per rivestire l’interno dei vasi vinari in terracotta, ma viene aggiunta sia cruda che cotta, sia liquida che in polvere al mosto cotto: secondo catone nella misura di circa 1 Kg per due ettolitri. Infine i vini dolci, di cui Plinio ne ricorda almeno 18 tipologie e tra queste la famosa murrina: non è da escludere che alcuni di essi siano in versione frizzante: “et ille impiger hausit, spumantem pateram et pleno se produit auro; post alii proceres23”; “…ed egli si presentò con una coppa d’oro stracolmo di vino spumeggiante e senza indugiare un istante vuotò il calice; poi bevvero gli altri…”. Il metodo più utilizzato nell’antica Roma per ottenere vini frizzanti è quello di immergere il mosto appena ricavato dalla pigiatura in pozzi di acqua fresca per alcuni mesi.

Il vino e le fave nel ricettario di Apicio.

Alcuni giorni fa (26 dicembre 2020) la stampa italiana24 annuncia, in pompa magna, il ritrovamento di un nuovo termopolio a Pompei pressoché intatto collocato nella Regio V davanti ad una piazza di grande passaggio all’angolo fra il vicolo dei Balconi e la casa delle Nozze d’Argento. Vengono rinvenuti dei piatti, forti di quell’artificio culinario di cui parlavo poc’anzi, con l’impiego allo stesso tempo e per il medesimo piatto di mammiferi, uccelli, pesce e lumache. E, poi, un meraviglioso, quanto unico, esempio di archeologia olfattiva: del vino corretto con le fave. Al fondo del dolo in cui viene depositato il vino, una mattonella separa i legumi dal liquido per evitare, come spiega nella sua relazione l’archeozoologa Chiara Corbino, di mescere il vino insieme con il suo poco gradevole fondo.

Apicio, come personaggio storico, appare avvolto nella nebbia poiché le notizie attestate su di lui sono poche: “Possiamo identificare con il nome di Apicio tre distinte persone: un Apicio vissuto molti anni prima di Cristo che inveisce contro la legge Fannia proposta dal console Caio Fannio nel 161 a.C. per limitare l’eccessivo lusso dei banchetti romani; il patrizio Marco Gavio – che ebbe il cognomen proverbiale di Apicio dal nome del famoso ghiottone che visse nel secolo precedente – operante sotto Augusto e Tiberio; un Apicio vissuto sotto Traiano, specializzato nella conservazione delle ostriche. Al secondo di questi personaggi si deve la raccolta – per cuochi – di ricette gastronomiche che costituisce il nucleo preponderante del De re coquinaria (Manuale di gastronomia). Seneca (Ad Helviam 10, 8), Tacito (Ann. IV 1), Cassio Dione (Storia di Roma LVII 19, 5), l’Historia Augusta (II 5, 9), lo scolio a Giovenale (IV 23), raccontano brevemente che Apicio frequentò il figlio di Tiberio, Druso minore, e che ebbe, lui quarantenne, per amante il quasi coetaneo Seiano (prefetto del pretorio nel 14-31 d.C.). Da queste notizie possiamo fissare la sua nascita intorno al 25 a.C.25

Il De re coquinaria giunge a noi attraverso un manoscritto del IX secolo, il Vaticanus Urbinas lat. 1146, diversi altri codici di epoca umanistico-rinascimentale e due prime edizioni veneziane: la prima datata 1498 (Apicii Celii, De re coquinaria, Venezia 1498), mentre la seconda non datata (Apicii Celii, De re coquinaria libri decem, Bernardus Venetus, Venezia). Nel contempo anche a Milano viene dato alle stampe “Appicius Culinarius”, Guilermus Signerre, Milano 1498. Seguiranno altre edizioni di cui una del 1503 a Venezia e poi due nel 1541 a Basilea e a Lione e una, nel 1542, a Zurigo.

La ricetta che interessa nel merito dell’articolo è questa:

VI. VINVM EX ATRO CANDIDUM FACIES: Lomentum ex faba factum vel ovorum trium alborem in lagonam mittis et diutissime agitas. alia die erit candidum. et cineres vitis albae idem faciunt”.

VI. COME RENDERE CHIARO IL VINO NERO. Versa in un orciuolo di vino nero delle fave ridotte in farina o l’albume di tre uova. Agita a lungo. Il giorno dopo il vino sarà scolorito. Lo stesso effetto produrranno le ceneri della vitalba”.

Innanzitutto le fave ridotte in farina: si suppone che vengano introdotte ben pestate e che queste costituiscano una parte del fondo precipitato del vino. Poi, come sempre, le parole assumono significati diversi in contesti ampiamente interpretabili: alcuni traduttori esprimono “candidum” in “bianco”, per cui la versione diverrebbe: “Come ottenere del vino bianco da quello nero”. E quindi “il giorno dopo il vino sarà bianco”. Altri rendono “candidum” nell’aggettivo “chiaro”. Parlando di vino la differenza non è di poca cosa: per quanto mi riguarda preferisco di gran lunga il termine “chiaro”, che rimanda al processo di “chiarificazione” e dunque alla stabilizzazione e al miglioramento organolettico: non al cambiamento totale di colore, ma all’illimpidimento artificiale, parola che ancora una volta non uso a caso, del vino e al deposito conseguente delle fecce sul fondo.

Bibliografia.

Giovanni Dalmasso, Le vicende della viticoltura e dell’enologia nell’Italia antica e I vini dell’Italia antica in Le vicende tecniche ed economiche della viticoltura e dell’enologia in Italia, in (a cura di), A. MARESCALCHI G. DALMASSO, STORIA DELLA VITE E DEL VINO IN ITALIA – 3 VOLUMI , ARTI GRAFICHE ENRICO GUALDONI anno: 1931 / 1937 città: MILANO;

Lorenzo Dalmasso, Elementi tecnici riflessi nella letteratura in La vite e il vino nella letteratura romana, STORIA DELLA VITE E DEL VINO IN ITALIA cit.;

Goffredo Bendinelli, La vite e il vino nel territorio vesuviano in La vite e il vino nei monumenti antichi in Italia, STORIA DELLA VITE E DEL VINO IN ITALIA cit.;

FEDERICA GROSSI, Bar, fast food e tavole calde: nomi e funzioni dei locali di ristoro nelle città romane dell’Impero, in “LANX”9 (2011), pp.1‐46;

Flacco Quinto Orazio, Carmen Saeculare in Quinto Orazio Flacco, Odi ed epodi, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 1985;

Ateneo di Naucrati, Deipnosofisti (dotti a banchetto). Epitome dal libro I. Testo greco a fronte, Quaderni bolognesi di filologia classica studi, Pàtron, Bologna 2010;

Andrea Bacci, De naturali vinorum historia, Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba, traduzione Mariano Corino – ediz.1992;

Marco Valerio Marziale, Epigrammi. Testo latino a fronte, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, MIlano 1996;

Strabone, Geografia. L’Italia. Libri 5º-6º, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 1988;

Gaio Plinio Secondo, Storia naturale. III: Botanica. 2 Libri 20-27, I millenni, Einaudi, Torino 1985;

Lucio Columella, De re rustica, Einaudi, Torino 1997;

Irene Sandei, Il vino nella società romana (maschile): la medicina, la ‘cena’, la sfera religiosa, in “Ager Veleias”, 3.14 (2008);

Helen Tosini, Apicio e la cucina degli antichi romani, in “Ager Veleias”, 10.15 (2015) (www.veleia.it);

Gianni Gentilini, I cibi di Roma imperiale. Vita, filosofia e ricette del gastronomo Apicio, Edizioni Medusa, Milano 2004;

Pietro Stara, Il discorso del vino. Origine, identità e qualità come problemi storico-sociali, Edizioni Zero in condotta, Milano 2013

1 Per una superficie che si aggira attorno ai 90 m2 per le popinae, mentre le cauponae si differenziano per una maggiore disponibilità di locali (adibiti a triclinia, cellae meretriciae) e luoghi aperti (giardini-viridaria ma anche appezzamenti di terreno con vigneti e alberi da frutto) per metrature comprese tra i 100 e i 400 m2.

2 FEDERICA GROSSI, Bar, fast food e tavole calde: nomi e funzioni dei locali di ristoro nelle città romane dell’Impero, in “LANX”9(2011), pp.1‐46

3 DOLIO (lat. dolium). – Il dolio dei Romani, corrispondente al πίϑος dei Greci, è un vaso di grandi dimensioni, in generale di terracotta, destinato a contenere liquidi (vino, olio, ecc.) o anche aridi (grano, legumi) da conservare nei magazzini. La forma del πίϑος è prevalentemente quella di un tronco di cono rovescio, con larga bocca; quella del dolio invece è globulare, con base abbastanza ampia. Le dimensioni erano tali che entro il vaso poteva bene entrare un uomo, come, secondo il mito, vi entrò Euristeo, spaventato alla vista del cinghiale di Eurimante, o, come si narra, vi abitò Diogene. I vasi erano raccolti nei granai o magazzini dei palazzi o delle case private, e molto spesso, per la migliore conservazione delle derrate, erano affondati nel terreno: così a Pompei, a Ostia, ecc., mentre allineamenti di πίϑοι ci hanno dato i grandi palazzi cretesi di Cnosso, di Festo, di Troia. Sull’orlo della bocca era spesso segnata in cifre la capacità del vaso. (Enciclopedia Treccani)

4 Al termine della prima guerra sannitica (343-341 a.C.) i Romani conquistarono l’ager Falernus; la conquista dell’area si concretizzò con la deduzione di una colonia di diritto latino, Cales, nel 334 a.C.

5 Si parla di torchi caleni, della città di Cales, oggi Calvi Risorta in provincia di Caserta

6 Il “ma” sta per “purtroppo”: alcuni latinisti del Novecento usano i verbi “arridono” (Canali) e “brillano (Mandruzzato) in riferimento alle coppe in cui vengono versati quei vini

7 Flacco Quinto Orazio, Carmen Saeculare, 17 a. C., Liber X

8 Massiccio montuoso della Grecia, nell’Attica, a sud est di Atene

9 Ateneo di Naucrati (2º-3º sec. d. C.), I Deipnosofisti, I,26,c

10 Lucusta (o Locusta) fu una celebre avvelenatrice dell’epoca di Nerone, che operò a servizio di Agrippina e di suo figlio ed ebbe anche degli allievi, almeno secondo quanto riferisce Svetonio nella sua Vita di Nerone, narrando un episodio su Locusta, l’imperatore e i tentativi compiuti da quest’ultimo per uccidere Britannico.

11 Andrea Bacci, De naturali vinorum historia, 1595

12 Strabone, Geographica, V, 4, 3

13 Plinio, Naturalis Historia, III, 6

14 Una nuova iscrizione trovata di recente rimanda ad alcuni giorni prima delle calende di novembre: è ormai certo che l’eruzione del Vesuvio non avvenne il 24 di agosto, ma al 24 di ottobre

15 Ep., VI, 16

16 Lucio Giunio Moderato Columella, De re rustica, Liber III, 2, 13

17 Plinio, cit., Liber III*, 14, 21 – 22

18 Irene Sandei, Il vino nella società romana (maschile): la medicina, la ‘cena’, la sfera religiosa, in “Ager Veleias”, 3.14 (2008)

19 Per Plinio i vini hanno quattro colori: bianco, giallo, rosso sangue e nero. Cfr. Naturalis Historia, Liber* III, 14, 80

20 E’ stato calcolato che in un litro di vino a 17° alcolici rimanevano 88 gr di zucchero indecomposto

21 Dall’uva passa detta in greco psitia.

22 Dalla città di Scibelia, in Panfilia nell’Asia Minore

23 Virgilio cita nell’Eneide il brindisi effettuato dalla regina Didone con i nobili del regno e il condottiero Bezia.

24 Straordinaria scoperta a Pompei, ritrovato un termopolio intatto: “Ancora cibo nelle pentole”in https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/12/26/news/pompei_ritrovato_un_termopolio_intatto-279921637/

25 Helen Tosini, Apicio e la cucina degli antichi romani, in “Ager Veleias”, 10.15 (2015) (www.veleia.it)

Il vino che sa di balsamo nell’antica Roma

Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6012181
Produzione dei profumi nella decorazione della casa dei Vettii a Pompei

La cucina aristocratica dell’antica Roma s’imperniava sull’idea di artificio, di elaborazione e di commistione dei gusti che, all’interno dello stesso piatto, trovavano adeguato spazio e reciproca soddisfazione: non era inusuale, infatti, avere, al medesimo tempo, sapori piccanti, dolci, amari, acidi e salati. Le ragioni, naturalmente, erano più d’una, ma occorre non dimenticare che l’apporto di sostanze diverse contenute nei cibi andava incontro non soltanto a dei gusti e dei piaceri di un’epoca: era, secondo le teorie dietetiche ereditate dalla medicina di Ippocrate ed elaborate successivamente da Galeno, la condizione necessaria del corpo perché ricevesse un apporto nutritivo completo e indispensabile, ad ognuno secondo le proprie condizioni fisiche, sociali, anagrafiche, temporalmente e geograficamente situate, per riequilibrare gli umori corporei.

Il vino non fu da meno. Era d’uso comune berlo “conciato”: sicuramente tagliato con parti d’acqua secondo l’uso greco e spesso con l’aggiunta di spezie, miele (mulsum), gesso, resine, frutti… Ma su questo non mi dilungherò oltre.

Altro, invece, fu l’uso del vino puro nell’antica Roma e soprattutto nella Roma arcaica: “nella medicina ha notevoli qualità e impieghi: è un antidoto contro la cicuta, il coriandolo, l’aconito, il vischio, ecc., e ancora contro il morso dei serpenti e le punture degli scorpioni, contro tutti i veleni che raffreddano; inoltre va bene per i gonfiori e i dolori gastrici, per la dissenteria, in caso di febbre e tosse (…) Il vino ha una parte importante nelle libagioni, che spesso accompagnano e propiziano un sacrificio, il misterioso rituale che consente di accedere al sacro, in cui gli uomini condividono un prodotto della terra con gli dei o con i defunti (libare: prendere una parte di qualcosa). Le bevande fermentate, in primis il vino, sono le più indicate per le libagioni, in quanto l’ebbrezza che procurano somiglia a una trasformazione magica e dà accesso a uno stato prossimo al sacro. Il vino impiegato per questo scopo, come testimoniano le fonti antiche, è il temetum, vinum merum, vino puro, la cui importanza nella società romana (in particolare arcaica) è enorme, proprio in quanto medium della relazione tra gli uomini e gli dei (da cui la donna è esclusa)[1]”.

Questo breve passaggio fa capire che, sebbene le consuetudini dei baccanali preferissero vini trattati o mischiati con l’acqua, la conoscenza dei vini puri fosse ben presente nella cultura dell’antica Roma nonostante fosse appannaggio di alcune classi sociali che lo consumavano nei momenti dedicati. Il vino, dunque, si suppone venisse giudicato nella sua essenza percettiva e sensoriale in forma pura prima che venisse passato ad interventi di rielaborazione gustativa. La domanda che torna a noi abituale, soprattutto perché portatrice di curiosità, ricade sul gusto di quei vini: cosa bevevano, insomma?

L’unico indizio che sono riuscito a trovare (ne esisteranno sicuramente altri) risale all’immensa e meravigliosa opera enciclopedica di Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) “Naturalis historia”. Il Libro XII fu il primo ad essere dedicato da Plinio al mondo vegetale a partire dalle piante e dalla loro importanza sociale: gli alberi furono, infatti, i primi strumenti del culto divino. Plinio trattò tutto il regno delle piante smisurate ed umili, dalla profumata flora alpina a quella lussureggiante dei tropici, dalla vegetazione selvaggia e nociva alla verdura servizievole degli orti e dei giardini.

Proprio nel libro dodicesimo, al capitolo 115.1, quando Plinio affrontò la pianta del balsamo e i suoi semi, scrisse le seguenti parole: “Semen eius vino proximum gustu, colore rufum, nec sine pingui”, ovvero “il seme del balsamo ha un gusto molto simile a quello del vino, il colore rossiccio ed è un po’ oleoso”. Ancora una volta il debito del presente ad una storia antica.


[1] Irene Sandei, Il vino nella società romana (maschile): la medicina, la ‘cena’, la sfera religiosa, in “Ager Veleias”, 3.14 (2008)

Comprendere (il vino) al momento giusto.

Jan Vermeer, Bicchiere di vino (con particolare), Gemäldegalerie di Berlino, 1660

 

«Plinio intorno alla vecchiezza de vini ne fa menzione di alcuni che passavano un secolo ed erano ancora potabili e di altri che avevano fino 200 anni ma quelli erano ridotti in una specie di miele e potevano pertanto ancora servire a ravvivare i vini più nuovi ma troppo deboli. Riferisce lo stesso Plinio che Stafilo fu il primo che temperare il suo vino e che lo temperasse coll’acqua ma Ateneo dà ad Anfitione Re di Atene la gloria di aver messo il primo dell’acqua nel vino[1]».

Se nell’antichità è cosa risaputa l’apprezzamento dei vini invecchiati, anche di molto, e dei vini puri non conciati né annacquati, alcuni storici[2] hanno sostenuto che «dopo il crollo dell’impero romano la predilezione per il vino invecchiato scomparve per un millennio. I vini acquosi e a bassa gradazione alcolica dell’Europa settentrionale si mantenevano solo per alcuni mesi, diventando poi aspri e imbevibili. Gli unici a poter essere consumati a distanza di tempo erano i vini dolci e ad alta gradazione alcolica provenienti dall’area mediterranea». Nel frattempo si è affermata l’opinione «che nel medioevo si bevesse solo vino giovane e che il ‘vino vecchio’ menzionato occasionalmente altro non fosse che il vino della penultima annata.»

In realtà quasi tutte le fonti concordano nel sostenere che nel Medioevo si differenzia tra tre tipologie di invecchiamento, alle quali non corrisponde un’unica attribuzione temporale: il vino ‘nuovo’, il vino ‘medio’ e il vino ‘vecchio’.

Pietro de’ Crescenzi nel suo Ruralium commodorum libri XII (Profitti in agricoltura) scritto nel 1305 circa e dedicato a Carlo II d’Angiò re di Sicilia (detto lo Zoppo, 1254-1309), diffuso come manoscritto in 109 copie (ebbe la prima edizione a stampa nel 1471), ispirandosi al Liber de simplici medicina (Circa Instans) di Plateario[3] e al Liber dietarum particularium di Isacco Giudeo[4], suddivise le età dei vini in ‘fresco’, di un anno, in ‘medio’, di due o tre anni, e in ‘vecchio’, di quattro e più anni. Anche in Francia il vino di Saint Jouan (Saint-Jean d’Angély, nella Charente Maritime) si vantava di durare nove  o dieci anni anche se mal trasportato, così come Guiot de Vaucresson autore de ‘Des Vin d’ouan’ (I vini dell’annata in corso, fine XIII secolo) elogiò i  vini ‘vielz’, lamentandosi invece di quelli giovani (novelli) e acerbi provenienti da uve immature, definiti come vini ‘sleali’, che «vogliono strozzare la gente[5]».

Tempi di raccolta delle uve, pratiche viticole ed enologiche, qualità della conservazione, affinamento, invecchiamento, trasporti… sono elementi propri delle valutazioni che già nei tempi più remoti e nel corso dei secoli servono a decifrare la qualità di un vino e a permettere che sia bevuto dopo aver raggiunto, come sosteneva Arnaldo da Villanova[6], una certa maturità, che egli definì come ‘anitque’, ma senza riferimenti temporali precisi[7].

In gran parte della tradizione letteraria antica si pone la questione del rapporto tra tempo e verità, tra disvelamento e comprensione: «L’espressione ‘veritas filia temporis’ risale però ad Aulio Gellio  (che muore nel 65 d. C.) ed è presente nelle Noctes atticae , un testo che fu caro a Nonio Marcello e a Macrobio e fu apprezzato da Agostino.(…) La verità è figlia del tempo e il tempo è l’ermeneuta o l’esegeta o il decifratore della verità: nel titolo del capitolo 10  della sua ‘Història do futuro’ Vieira aveva scritto; ‘il miglior interprete delle profezie è il tempo’. Isaac Newton aveva anch’egli scritto: ‘The manner I know not. Let time be the interpreter.[8]’»

Se a tempo giusto si capisse, «la verità sarebbe vicina e ampia, sarebbe amabile e mite[9]

[1] Gianfrancesco Pivati, Nuovo Dizionario Scientifico E Curioso Sacro-Profano Di Gianfrancesco Pivati Dottore

Delle Leggi. In Venezia per Benedetto Milocco, MDCCXLVI-MDCCLI. 10 v.

[2] Van Uytven, Der Geschmack am Wein . Cfr. anche Y. Renouard, Le vin vieux au Moyen-Age, «Annales du Midi», 76 (1964), pp. 447- 455 (rist. in ID., Etudes d`histoire médiévales, 1, Paris 1968, pp. 249-256 citati da Michael Matheus, La viticoltura medievale nelle regioni transalpine dell’Impero in Gabriele Archetti (a cura di), La civiltà del vino: fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento : atti del convegno, Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001, Centro Culturale Artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia 2003, pp. 119 – 121

[3] “La composizione del Circa Instans è di solito attribuita a Plateario, e più precisamente a Matteo Plateario, infatti, poiché egli scrive un glossario sull’Antidotario di Nicola intorno al 1140 e muore nel 1161, si ritiene che egli possa essere la figura più calzante con l’autore dell’opera, presumibilmente datata a questo periodo. Questo scritto si presenta come un trattato di materia medica e terapeutica, le varietà vegetali esaminate sono in particolare quelle presenti nell’area campana e lucana. E’ un dizionario dei “semplici”, poco rigoroso per l’ordine alfabetico, che definisce la funzione farmacologica delle piante e dimostra l’utilità dei medicamenti composti; passa in rassegna l’appartenenza ad uno dei quattro gradi: caldo, freddo, umido o secco ; descrive brevemente quale parte è utilizzata per il medicamento, albero o arbusto, erba o radice, fiore, semenza, foglia, pietra o alcuna altra cosa; elenca eventuali sinonimi greci o latini; enumera le qualità del medicamento, ricorrendo anche a citazioni autorevoli, e ne dà la posologia. Un’attenzione particolare è inoltre dedicata al problema delle droghe e alla loro sofisticazione, con una trascrizione di numerose ricette, un invito e una guida a vigilare su eventuali frodi da parte di coloro che attendono alla preparazione dei farmaci.” Paola Capone, Memorie medievali nei  ‘semplici’  Salernitani, in http://193.206.215.10/erbe/introduzione/intro2.html

[4] Issak Judaeus medico arabo di religione ebraica, egiziano il cui nome arabo è: Ishàq al-Israili (m. 932). Testi a lui attribuiti: Liber de definitionibus, Liber de elementis, Liber dietarum universalium, Liber dietarum particularium, Liber de urinis, Liber de ferbribus.

[5] Cfr. Yann Grappe, Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel Medioevo, Editori Laterza, Bari – Roma 2006, pp. 105 – 111

[6] Arnaldo da Villanova

Arnoldo da Nova Villa nasce a Valencia intorno al 1240 e, dedicatosi inizialmente agli studi letterari, si appassiona solo in seguito alla medicina, che approfondisce nella scuola araba di Spagna e a Parigi. Viaggia lungamente anche in Italia, fino a divenire uno scienziato universale e medico del pontefice Bonifacio VIII, si spegne in una barca in mezzo al mare, di fronte alla città di Genova, nel 1311. Nel suo Breviarium practicae (pubblicato nel 1483) vengono menzionate tutte le malattie allora conosciute, utilizzando un raggruppamento che tenga conto dei sintomi fisici, funzionali e soggettivi e delle loro cause, differenziate in determinanti (eziologiche), antecedenti (ereditarie) e congiunte. In botanica Arnaldo si dedica allo studio dei semplici, all’uso terapeutico delle piante e all’utilizzo della teriaca. Le opere a lui attribuite sono: il De Vinis, il De Venenis, il Causilium ad regem Aragonem de salubri hortensium…, e il commento al Regimen Sanitatis Salernitanum.

http://www.museovirtualescuolamedicasalernitana.it/web/content/didascalia_detail.php?id=arnaldo_da_villanova

[7] Ivi, pag. 108

[8] Paolo Rossi, Capire a tempo giusto, in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna 2009, pp.  235 – 261

[9] Cfr. J.W. Goethe, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, III, p. !77

 

Gli aromi del vino.

“L’odorato ha nell’amore effetti notissimi;

il dolce profumo di un gabinetto da toilette

non è una trappola così debole come si pensa;

io non so se si deva felicitare o compiangere

l’uomo saggio e poco sensibile,

che l’odore dei fiori portati dalla sua amante

sul seno non abbia mai fatto palpitare.”

Rousseau J. J., Emilio

 nasoNasi linguistici.

Sin dall’antichità classica i medici non si stancarono di ricordare che il naso, tra tutti gli organi del senso, è quello più vicino al cervello, e quindi all’origine del sentimento. Oggi qualcuno direbbe che il soffitto del naso corrisponde al pavimento del cervello. Oppure parlerebbe di “nasi linguistici”, dove “la degustazione trova il suo naturale completamento in quel complesso compito cognitivo che è la discriminazione e la descrizione delle diverse e fugaci componenti aromatiche e dei sapori di un vino (il bouquet di un vino complesso, determinato dalla presenza di profumi primari, secondari e terziari, legati rispettivamente al vitigno, alla fase di vinificazione, ai processi di affinamento), la fase appunto più complicata ed emozionante della degustazione: trovare le parole giuste che, senza tradirlo, traducano e trasmettano la sottigliezza aromatica del divino nettare è un compito sapiente dei sommelier, autentici ‘nasi pensanti e linguistici’. Così, se l’atto del bere è generalmente muto, la degustazione, un’abilità specificamente umana, deve necessariamente essere parlante[1].”

Vini odorosi.

Ai degustatori viene insegnato che esistono tre tipologie di aromi: i primari, i secondari e i terziari. Gli aromi primari derivano dagli alcoli terpenici, che sono presenti nelle bucce sotto forma di precursori glicosilati e nelle polpa come molecole non glicosilate: sono gli aromi pre-fermentativi, tipici dell’uva di provenienza, che hanno una maggiore riconoscibilità nelle uve aromatiche (Moscato, Malvasia….) e semi-aromatiche. I composti terpenici sono i principali responsabili degli aromi associati ai fiori, alle foglie, ai frutti e alle resine di molte piante (il linaiolo, floreale, fragrante e pulito, il geraniolo, nota floreale secca; il nerolo, dolce e delicato; il citronellolo, odore ruvido e poco garbato; d-cintronellolo, delicato, suadente, con note fruttate e di rosa rossa, nella sua variante di enantiometro levo). Gli aromi secondari sono quelli provenienti dalla fermentazione e strettamente legati ad essa: lieviti in uso, malolattica… Gli esteri sono i più importanti tra questi e si formano attraverso l’unione di una molecola di alcol con una di acido. La loro qualità dipende strettamente dal ceppo di lievito presente (o indotto) durante la fermentazione, coadiuvati, a volte, da una bassa temperatura e dalla presenza di ossigeno (elementi favorevoli). La solforosa, al contrario, produce un effetto inibente. L’impatto olfattivo più evidente degli esteri è il profumo fruttato: acetato di isoamile (aroma di banana), l’acetato di esile (aroma di pera) e acetato di feniletile (aroma di rosa) e l’esanoato di etile (aroma di buccia di mela) sono i più importanti fra essi. Non dobbiamo scordarci, però, il cinnamato d’etile (nocciolo di ciliegia per i più) presente in buona quantità nel Pinot Nero. Tra gli aromi secondari post-fermentativi fanno anche la loro comparsa gli alcoli superiori, non molto apprezzati e apprezzabili, soprattutto in fermentazioni molto rapide, a cui fa unica eccezione l’alcol feniletilico, dal netto profumo di rosa. Dal metabolismo dei lieviti posso generarsi anche i lattoni, tra i quali emerge il solerone, che alcuni esperti non mancano di segnalare come la componente volatile per eccellenza dei vini rossi. Se avviene poi, come in molti casi capita (in maniera più o meno voluta), la fermentazione malolattica, allora i sentori vegetali ed erbacei tenderanno a diminuire per lasciare il posto a profumi di burro, di yogurt, di caramello e nocciole. Gli aromi terziari sono, infine, quelli derivanti dall’invecchiamento che può avvenire in luoghi microssigenati (botti di legno) o in riduzione (acciaio e vetro), condizioni determinanti per lo sviluppo degli aromi stessi. La vanillina è tipica delle botti di legno (barrique) nuove, lattoni da rovere, fenoli volatili (chiodi di garofano), guaiacolo (affumicato), metilguaiacolo (affumicato/speziato), vinilguaiacolo (curry), etilfenolo (medicinale, cuoio, cavallo). Acidi fenolici, come quello gallico (amarognolo), composti furfurilici (aroma di torrefatto e di caffè) completano la gamma delle componenti terziarie[2].

Il sublime e il volatile.

La scienza profumiera, verso cui il debito di ogni bevitore è immutato, affronta la questione degli odori con uno sguardo diverso, soprattutto per le differenti finalità della sua arte. Essa parla di note di punta (di testa), quelle più volatili e immediatamente percepibili, quelle medie (o di cuore), l’odore principale e caratteristico della sostanza e quelle  finali (o di base), le più durevoli: “la transizione da uno stadio all’altro è, naturalmente, un sottile confluire più che un drastico mutamento.” Le note di punta sono “facili da amare, tutt’altro che complesse, forti ma non pesanti. Sono acute, penetranti ed estreme; calde o fredde, mai tiepide. Molte ci sono familiari grazie alla gastronomia; aromi e spezie quali coriandolo, menta, cardamomo, ginepro; agrumi quali limetta, arancio amaro, sanguinello, tangerino (Ibrido del mandarino con l’arancio), pompelmo rosa….[3]” Quasi tutte le essenze floreali “sono note medie, o note di cuore, e quasi tutte le note medie sono di fiori, pur includendo anche un esiguo numero di erbe e spezie: salvia sclarea, verbena, chiodi garofano e corteccia di cannella. Le note di cuore danno corpo alle miscele, conferendo calore e pienezza[4].” Infine, “le note di base sono le più intense, misteriose e antiche di tutti gli ingredienti dei profumi… I timidi scelgono sempre la vaniglia; i coraggiosi optano talvolta per il costus, il tabacco biondo o l’absolue di abete canadese nero[5].”

Per un profumiere che si rispetti il vino presenta un problema di alcol, che sporca il naso: nei profumi rappresenta una parte volatile molto leggera, mentre nei vini no. Poi, però, c’è un punto che accomuna entrambi: “Credo di aver capito una cosa: nel mio mestiere è facile capire se un profumo è il risultato di una passione del suo creatore o un prodotto banale, e con i vini ho avuto l’impressione che valga lo stesso[6].”

Le sostanze odorose secondo Plinio Il Vecchio.

«La differenza tra tutte le sostanze odorose, e perciò anche tra le piante, è nel colore, nell’odore e nel succo. Raramente una sostanza odorosa non ha sapore amaro, e viceversa è raro che le sostanze dolci siano odorose. Per questo il vino è più odoroso del mosto, e tutte piante selvatiche lo sono più di quelle coltivate. La fragranza di certe piante , come quella della viola, è più soave da lontano; sentita da vicino si attenua. La rosa fresca profuma da lontano, quella secca da vicino. Tutti i fiori, comunque, hanno un profumo più penetrante in primavera e al mattino; ma mano che si avvicina il mezzogiorno, il profumo di attenua. Le piante novelle, inoltre, sono meno odorose di quelle vetuste; comunque, l’odore più penetrante si ha per tutte nell’età del mezzo. La ora e lo zafferano sono più odorosi se si colgono nei giorni di sereno, e tutte le piante sono più odorose nelle regioni calde che in quelle fredde. Nondimeno in Egitto i fiori profumano pochissimo perché l’aria è resa nebbiosa e rugiadosa dall’imponente presenza del fiume. Il profumo di certe piante è soave ma troppo intenso. Talune, quando sono verdi, non odorano per eccesso di umidità, come il bucerate, cioè il fieno greco. Nelle piante ricche di acqua, l’odore non è del tutto indipendente dal succo, come nella viola, nella rosa, nello zafferano, mentre tutte le piante acquose prive di succo hanno un odore pesante, come il giglio di tutte e due le specie (bianco e rosso). L’abrotano e la maggiorana hanno odori penetranti. Di certe piante solo il fiore è gradevole, le altre parti sono inerti: è il caso della viola e della rosa. Fra le piante dell’orto , le più odorose sono quelle secche, come la ruta, la menta, l’apio (sedano), e quelle che crescono nei luoghi secchi. In certi casi il profumo aumenta con l’invecchiamento, come avviene alle cotogne, le quali inoltre odorano di più una volta colte che non sull’albero. Certe piante odorano solo se vengono spezzate o sfregate, altre solo se vengono scortecciate, certe poi solo se si bruciano, come l’incenso e la mirra. Tutti i fiori una volta pestati sono più amari di quando sono intatti. Alcune piante mantengono più a lungo l’odore quando sono seccate, come il meliloto. Certe rendono più odoroso il luogo dove si trovano, come l’iris, che anzi profuma per intero qualunque albero di cui tocchi la radice. L’esperide odora di più di notte, e da ciò deriva il nome. Fra gli animali nessuno è odoroso, a meno che non vogliano credere a ciò che è stato detto delle pantere[7]

 

[1]     Rosalia Cavalieri, Nasus cogitans. Divagazioni sull’intelligenza del naso, in http://mondodomani.org/dialegesthai/rc01.htm

[2]     Cfr. Mirco Marconi, Daniele Fajner, Gianni Benevelli, Giuseppe Nicoli, Dentro al gusto. Arte, scienza e piacere nella degustazione. Edagricole, Bologna 2007. In particolare i capitoli 2 e 3

[3]     Mandy Aftel, Essenze e alchimia. Il libro dei profumi, Garzanti, Milano 2006, pag. 132

[4]     Ibidem, pag. 113

[5]     Ibidem, pp. 79,80

[6]    Intervista del Gambero Rosso, numero 25 del giugno 2002 a Laura Tonatto, A lume di naso. Se il vino fosse un profumo. Cosa succede se un “naso” profumiere mette “naso” in un bicchiere di vino? In http://www.lauratonatto.com/uploads/b0dfae_39.pdf

[7]    Plinio il Vecchio, Storia naturale, Liber XXI. Traduzione di A.M. Cotrozzi in G.B. Conte, Gaio Plinio Secondo. Storia Naturale, vol. III, Botanica, Einaudi, Torino 1984

La foto è tratta da romagnaoggi.it

Sugli odori. Secondo Teofrasto da Ereso.

Pittura della casa della Farnesina a Roma, fanciulla che versa il profumo in un'ampolla (I secolo a.C.)
Pittura della casa della Farnesina a Roma, fanciulla che versa il profumo in un’ampolla (I secolo a.C.)

Il primo studioso degli odori, dal quale prenderanno ispirazione numerosi autori successivi (citatissimo ne la Naturalis Historia, ‘Storia naturale’, con cui Plinio il Vecchio, scrivendo tra il 72 e il 77 AD, riassume tutto lo scibile naturalistico accumulato in Grecia e a Roma durante i sei secoli precedenti), è Teofrasto da Ereso[1] (ca. 372 – ca. 287 a.C.), considerato il pensatore scientifico più influente dell’antichità classica: “Se non proprio il primo, infatti, egli fu per certo uno tra i primi e più importanti dossografi: quei pensatori che, pur capaci di sviluppare un loro pensiero originale, vollero dedicare tempo e sforzi anche a raccogliere informazioni sulle nozioni scientifiche degli autori precedenti, ad organizzarle, condensarle, rielaborarle in forma propria e, infine, a trasmetterle in una forma più accettabile ai loro contemporanei, così da renderle un patrimonio duraturo della cultura greca[2].” Le notizie su Teofrasto ci giungono quasi interamente da Diogene Laerzio il quale, nelle ‘Vite dei filosofi’, narra che il filosofo di Ereso frequenta ciò che di più elevato si potesse avere per l’epoca: dapprima è allievo di Platone all’Accademia di Atene, dove, nello stesso tempo, diviene amico di Aristotele. Quando poi, nel 347, alla morte di Platone, l’Accademia passa a Speusippo, Teofrasto segue Aristotele e Senocrate prima ad Appo, poi a Mitilene ed infine a Lesbo, dove rimane circa 10 anni – con puntate qua e là i Asia Minore – e scrive due testi botanici di fondamentale importanza: ‘La ricerca sulle piante’ in nove libri, in cui sono studiate circa cinquecento specie di piante e ‘Le cause delle piante’ che tratta della vita del mondo vegetale. Infine, differenziandosi testi sopracitati redige un libro particolare, ‘Caratteri’, dove analizza trenta tipi umani ciascuno di essi contraddistinto da una speciale indole, che ne provoca un comportamento costante e distintivo. Il testo relativo agli odori sembra che facesse parte, secondo quanto rilevato dagli studi di Wöhrle[3], dell’VIII libro de “Le cause delle piante’. Teofrasto, mentre si trova a Lesbo, svolge un’intensa attività politica che lo condurrà ad essere, per i dieci anni successivi, maestro di Alessandro Magno in Macedonia. Il resto della sua vita lo passa ad Atene, richiamato appositamente da Aristotele per la fondazione di una nuova accademia, il Liceo, che conduce dalla morte del maestro, avvenuta nel 322, sino al 288 a.C.

Il libro sugli odori si compone di 68 capitoli a cui se ne aggiunge uno, il 69, che riprende sostanzialmente quanto già espresso nel cinquantasettesimo. La grande novità di Teofrasto è che non parla, come già avviene in precedenza, dei profumi (aromata) soltanto per ciò che attiene il loro impiego, ma si addentra, per la prima volta, nelle tecniche di produzione appropriate a generare le diverse fragranze. Prima di lui sia Platone, nel Timeo, che Aristotele, ne ‘Sull’anima’ e ne ‘Sui sensi’ parlano di odori. Mentre il primo si limita a discutere degli odori  in termini dicotomici, gradevoli e sgradevoli, il secondo argomenta in maniera più ampia e diversificata: parte dalla differenziazione delle capacità sensibili (inferiori) degli esseri umani nei confronti del mondo animale; prosegue fondando un’analogia tra odorato e gusto (dolce e amaro), anche se attribuisce a quest’ultimo una capacità distintiva maggiore in quanto forma di tatto; attribuisce, così come fa Platone, all’aria e all’acqua la capacità di veicolare gli odori; fa appartenere l’odore alla categoria del ‘secco’, così come il sapore lo è di quella dell’‘umido’ (Aristotele, Sull’anima, IX 421a – 422a). Ne ‘Sui sensi’, Aristotele arricchisce l’argomentazione, a partire dalla constatazione che gli odori, così come i sapori, pur appartenendo l’uno alla categoria del secco e l’altro a quello dell’umido possono produrre il loro opposto: “Inoltre se il secco produce nei liquidi e nell’aria l’effetto come di qualcosa lavato in essi, è chiaro che gli odori devono essere analoghi ai sapori. Ora questo si verifica in taluni casi: infatti gli odori sono pungenti, dolci, aspri, forti e grassi e si dirà che odori fetidi sono analoghi a sapori amari – per cui, com’è difficile bere sapori amari, difficile è pure respirare sapori fetidi. E’ chiaro, dunque, che ciò che nell’acqua è il sapore, tale è nell’aria e nell’acqua l’odore: per questo il freddo e il congelamento attutiscono i sapori e annullano gli odori: infatti il freddo e il congelamento distruggono il caldo che muove e elabora gli uni e gli altri.” L’argomentazione aristotelica prosegue poi evidenziando le differenziazione tra mondo animale e quello umano in merito alle capacità sensoriali e distintive, per concludersi con l’affermazione che l’olfatto fa parte dell’organo centrale dei sensi che si esercitano per contatto (tatto e gusto) e quelli che “sentono attraverso un mezzo estraneo al soggetto, come la vista e l’udito.” Come tale l’olfatto è una proprietà delle sostanze nutrienti che concorre, anche se non ciba, alla salute del corpo. (Aristotele, Sul senso V 442b- 445b)

Come per il suo maestro Aristotele, anche per Teofrasto gli odori provengono da un mescolanza, per cui perfino la terra, che è sostanza semplice, emana un odore poiché è la più composita delle altre tre: aria, acqua e fuoco. Gli odori non hanno nomi particolari se non quelli mutuati da altri sensi come il piccante, il forte, il dolce, il pesante. Il lezzo caratterizza invece quegli odori che si rifanno alla marcescenza dei prodotti. Unica eccezione è la fermentazione del vino che “nessuno ritiene un processo di putrefazione pari alla decomposizione” (Cap. 2) Gusto e olfatto viaggiano poi o in assonanza o in netta contrapposizione: esistono odori ‘di per se stessi’ e sono quelli che si annusano, mentre quelli ‘accidentali’ sono legati al gusto e all’alimentazione. Grande spazio, come si è detto all’inizio, viene dedicato da Teofrasto alla techne profumiera, ovvero all’arte di produrre odori e sapori attraverso una tecnica e secondo un disegno ben preciso. E’ soltanto grazie alla mescolanza e all’accostamento armonico tra essenze diverse che si dà vita ad una nuova fragranza: “Dunque alcuni creano profumi e polveri fragranti mescolando sostanze secche a sostanze secche, altri invece o unendo le essenze al vino o combinando ingredienti liquidi con ingredienti liquidi. Il terzo metodo, il più diffuso, è quello seguito dai profumieri e consiste nell’unire componenti secche a sostanze umide. E’ questo il procedimento di preparazione di tutte le fragranze e di tutti gli oli profumati.” (Cap. 8) Teofrasto sa molto bene che le sostanze fresche hanno un profumo forte e penetrante, ma, una volta lasciate maturare, “lo addolciscono diffondendolo nuovamente”. Molte radici hanno bisogno di una lunga maturazione, come avviene per l’iris o per la mirra, mentre i fiori mostrano le loro qualità profumanti appena raccolti, oppure appena essiccati (Cap. 34). Varianti rispetto al risultato finale, pur utilizzando gli stessi prodotti nelle stesse quantità, sono determinate per primo “nella stabilità della stagione, che può rendere più o meno intense le proprietà odorose dei prodotti. La seconda sta nel periodo di raccolta: occorre considerare cioè se le sostanze odorose siano state raccolte prima o dopo rispetto al momento della loro piena maturazione. La terza è legata alla fase di conservazione dopo la raccolta e riguarda quegli ingredienti che, come detto, richiedono un tempo di riposo per raggiungere la loro piena maturazione aromatica”. (Cap. 37)

E infine il vino! Teofrasto, anticipando il liquido odoroso di Sandro Sangiorgi di 2300 anni circa, dice che “pare che il profumo addolcisca i vini”. Per questo alcuni lo uniscono nella fase di preparazione del vino odoroso, altri invece lo addizionano poco prima di bere. E’ ovvio che i sensi del gusto e dell’olfatto , essendo così vicini negli oggetti del loro sentire, abbiano qualche elemento in comune. Genericamente si può dire che nessun sapore sia sguarnito di odore e nessun odore sia senza sapore. Il motivo è il seguente: nessun odore può nascere da ciò che manca di sapore.” (Cap. 67)

 


[1] Il libro fondamentale su Teofrasto è quello di Giuseppe Squillace, Il profumo nel mondo antico. Con la prima traduzione italiana del «Sugli odori» di Teofrasto. Prefazione di Lorenzo Villoresi, Casa Editrice Leo Olschki, Firenze 2010

[2] Annibale Mottana, Il pensiero di Teofrasto sui metalli secondo i frammenti delle sue opere e le testimonianze greche, latine, siriache ed arabe, Memoria presentata nella seduta del 9 febbraio 2001 all’Accademia dei Lincei.

[3] George Wöhrle, The Structure and Function of Theophrastus’ Treatise De Odoribus, in Theophrastean Studies: Fifteen Papers on Natural Science, Physics and Metaphysis citato in Giuseppe Squillace, cit. pag: XIX

Le centottantacinque qualità diverse di vino: Naturalis Historiae di Plinio il Vecchio.

Dal mio libro.

bottiglia

la più antica bottiglia di vino di origine romana datata 325 d.C. ritrovata in un vigneto a Speyer (Renania-Palatinato,Germania)

«Due sono i liquidi maggiormente graditi al corpo umano: per l’uso interno il vino, per quello esterno l’olio, entrambi prodotti importantissimi degli alberi; ma l’olio è necessario, né l’uomo ha lesinato per lui l’impegno. Quanto tuttavia egli sia stato più ingegnoso per il bere, si evincerà dal fatto che ha creato centottantacinque qualità diverse di vino, che diventano quasi il doppio, tenendo conto delle varietà, mentre in numero molto più basso sono le qualità dell’olio, di cui parleremo nel libro seguente[1].»

Così si conclude il XIV Libro, dedicato alla Vite ed al Vino, con una comparazione con l’olio, argomento trattato nel libro successivo, ma che inizialmente viene pensato come libro unico, poiché molte delle fonti utilizzate per i due testi sono coincidenti.

Il Libro XIV, dopo un attacco polemico contro la trascuratezza dei moderni, inizia a menzionare i vitigni esteri non senza prima aver fatto riferimento alla supremazia italiana nella produzione: «Da dove potremmo meglio cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo? Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore[2].»

Ma quanti tipi di uve esistono per Plinio? «Innumerevoli ed infinite…Né si potranno citare tutte, ma solo le più celebri, perché ne esistono quasi tante, quanti sono i terreni: per questo motivo basterà aver segnalato le qualità delle viti più note o quelle che, per qualche particolarità sono fuori dell’ordinario[3].»

Interessante notare come l’attribuzione della varietà del vitigno rispetto al terreno, conferisca a quest’ultimo, come in tutte le moderne teorie del terroir, la capacità di dare forma e sostanza alla vite che cresce su di esso ed al vino che da esse è generato.

Al primo posto dell’elenco delle viti eccellenti ci sono, come già per Catone, Varrone, Columella ed Isidoro, le viti Aminee «per la robustezza del loro vino, che prende corpo sempre di più con l’invecchiamento[4].»

A differenza degli autori classici riportati precedentemente, i curatori del libro di Plinio, fanno risalire il nome Aminea ad una città campana, per cui attribuiscono, così come fa Plinio successivamente, ai vitigni menzionati come migliori un’origine prettamente italica: «Le viti Aminee, qui ricordate in apertura dell’elenco per la qualità del loro vino, sono le più famose dell’antichità e prendono il nome da Aminea, una località campana di incerta identificazione, che produceva questo famoso vino[5].»

Alle uve Aminee, per importanza, seguono le Nomentane e poi le viti Apiane, già viste in precedenza con Columella. Come sostengono i curatori del testo di Plinio, molte delle informazioni contenute in Naturalis Historiae sono debitrici di Catone, Columella e Dioscoride: «Il primo, più volte espressamente citato, è l’auctoritas antica, il modello di saggia conduzione agricola che incarna gli ideali delle nostalgie passatiste dell’autore. Non è quindi una semplice fonte, ma, soprattutto, un orientamento ideologico e un esempio insuperabile da cui si ricavano precetti ‘vicini all’origine delle cose’[6]. Anche Columella è un punto di riferimento importante: rispetto a questa fonte Plinio non rivela grosse divergenze – come invece da taluni si ritiene – distanziandosene solo per alcune varianti grafiche e per un ordine non sempre coincidente delle qualità d’uva citate. Con Dioscoride, poi, sono preponderanti le convergenze, piuttosto solide per tutta la sezione comprendente i paragrafi 98 – 112; un solo caso clamoroso di divergenza è costituito dalle notizie sul myrtidanum[7]. Oltre a queste, Plinio tiene ovviamente presenti altre opere specialistiche sia greche (Il Teofrasto dell’Historia e del Causis plantarum) che romane (Varrone, le Georgiche virgiliane, Celso, le monografie di Attico e Grecino, la traduzione di Magone fatta da Decimo Silano)[8].»

Il Libro XIV prosegue  con l’enumerazione di vini italici, gallici, spagnoli (53 – 61), di quelli greci, asiatici ed egiziani (73-76), di quelli trattati con acqua marina, quelli dolci, i vini passiti e i deuteria[9] sino a giungere ad un epilogo contro l’ubriachezza e le sue conseguenze (137- 149).

Ma è nel libro XVII che Plinio affronta alcuni temi legati al rapporto tra vite, tipologia del terreno, esposizione solare, clima: informazioni preziose che riguardano pratiche viticole e nozioni consolidate e che rimandano alla formazione completa dei discorsi intorno all’origine dei vini e come ricordato in precedenza a proposito delle uve retiche, dalla loro irriconoscibilità se piantate altrove.

Anche in questo caso i riferimenti di Plinio sono rivolti a quegli autori della tradizione come Virgilio, anche se messo in discussione, e Columella: «Virgilio disapprova l’esposizione ad occidente, altri invece la preferiscono a quella a oriente; mi accorgo che i più approvano l’esposizione a mezzogiorno[10], ma non credo che si possa indicare al riguardo una regola fissa. Bisogna considerare con scrupolosa attenzione la natura del terreno, i tratti distintivi del luogo, le caratteristiche di ciascun clima (…) Quando Virgilio condanna l’esposizione ad occidente, sembra non lasciare spazio a dubbi nemmeno riguardo il settentrione: eppure, nell’Italia cisalpina, le vigne sono esposte in gran parte così, ed è accertato che non ne esistono di più fertili. È molto importante tenere conto anche dei venti. Nella provincia Narbonese, in Liguria e in una parte dell’Etruria, è considerato un atto di imperizia piantare le viti contro il circio (vento di nord-ovest), di saggezza, invece, fare in modo che ricevano questo vento obliquamente (…) Certi subordinano il cielo alla terra, esponendo a oriente e settentrione le piantagioni situate in terreni secchi, a mezzogiorno quelle dei terreni umidi. Ricavano, inoltre, i criteri della scelta delle viti stesse, piantando quelle precoci nei luoghi freddi, in modo che la loro maturazione preceda il gelo, gli alberi da frutto e le viti che odiano la rugiada verso levante, perché subito la dissolva il sole, le piante che l’amano anche verso occidente o anche verso settentrione, perché ne godano più a lungo[11].»

Poi Plinio dedica lunghe pagine alla terra[12] ed ai terreni[13] adatti alla coltivazione delle piante tra cui la vite. Anche qui il criterio adottato da Plinio, che ripercorre ampiamente i suoi predecessori, è quello di marcare la variabilità delle situazioni, sottolineando la necessità di studiare e di conoscere la migliore condizione delle viti i rapporto alle altre variabili, che agiscono tra loro come interdipendenti: «Per lo più, infatti, la medesima terra non è adatta agli alberi e ai cereali, e la terra nera del tipo che si trova in Campania non è dovunque la migliore per le viti, come non lo è quella che sprigiona leggere nebbioline, né quella rossa, decantata da molti. Per la vite antepongo la creta del territorio di Alba Pompea (l’attuale Alba in Piemonte) e l’argilla a tutti gli altri tipi di terra adatti a tale coltura, sebbene siano molto grasse. È un’eccezione che si fa per tale tipo di pianta. Viceversa la sabbia bianca del territorio del Ticino, quella nera che si trova da molte parti, come pure quella rossa, anche mescolate  a una terra grassa sono infeconde. (…) Ogni cosa cela nel profondo i suoi segreti, e sta a ciascuno indagarli con la propria intelligenza[14].»

plinio

 

[1]       Gaio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C), Naturalis Histroriae, Libro XIV (i  primi 10 libri vengono pubblicati nel 77 d. C.), si compone di 37 libri, Einaudi, Torino 1984, III., pag. 271

[2]       Plinio, cit.,  XIV 2, pp. 184,185

[3]       Ivi, XIV 4

[4]       Plinio, cit. XIV 4, pag. 191

[5]       Ivi, nota 21

[6]       «Più antichi precetti in lingua latina sull’argomento non esistono: tanto vicini noi siamo, con essi, all’origine delle cose.» Plinio, cit. XIV 5, pag. 209

[7]       Per Plinio è il vino ottenuto dal mirto selvatico, facendo cuocere nel mosto salato dei rami giovani con le loro foglie.(XIV 19, pag. 245) Per Dioscoride è solo un’escrescenza del ramo di mirto in De materia medica, cit. I 112

[8]       Andrea Aragosti (traduzione a cura di), in Plinio, cit. pag. 179

[9]       Secondari

[10]     «Il meglio per me è insegnare che nei luoghi freddi i vigneti vanno esposti a mezzogiorno, in quelli tiepidi a oriente, purché non siano danneggiati dai venti sud-orientali, come sulla spiaggia marittima della Betica (attuale Andalusia). Se poi le regioni saranno esposte ai suddetti venti, sarà meglio affidare le vigne al soffio dell’aquilone (vento di tramontana proveniente da nord, o nord-est, solitamente impetuoso e freddo) o del favonio (detto anche Föhn, vento caldo e secco). Certo nelle zone a clima molto caldo, come l’Egitto e la Numidia, l’unica esposizione possibile è a settentrione.» Columella, cit. Libro III 12, pag. 225

[11]     Plinio, cit. XVII 2, pag. 531

[12]     Terra dal significato pedologico come varietà dei suoli. Terra: terre rosse (argillose); terre brune (da suoli neutri a moderatamente acidi), terre fini (sabbia, limo, argilla e humus). In agronomia il materiale costitutivo del terreno in quanto contiene degli elementi adatti alla nutrizione delle piante: terra di piano o di pianura, pugno di terra ecc. Vocabolario Treccani

[13]     Composizione di determinati suoli, si riferisce anche alla loro estensione, alla conformazione ed alle caratteristiche geografiche (pianeggiante, ondulato, collinoso, montuoso…) e agronomiche (boschivo, prativo, ortivo, coltivato, incolto…)

[14]     Plinio, cit. XVII 3, pp. 531 – 535