Vini bruschi, aspri ed anche un po’ stitici, che fanno danzare le capre.

Sarebbe ora di reintrodurre un termine medievale, di dubbia derivazione etimologica latina, l’aggettivo “pontico” (ponticus), che veniva adoperato per descrivere gli alimenti dal sapore brusco e aspro. Pier de’ Crescenzi utilizzò l’aggettivo pontico, nella sua opera “Opus ruralium commodorum libri XII”, a proposito delle diversità del sapore del vini: “La diversità del vino è per lo sapore, imperocchè altro è dolce, altro pontico, cioè brusco.” (Cr. 4. 48. 11.) In un altro passaggio De’ Crescenzi associa al termine pontico quello di terrestre: “Il pontico, e terrestre, ha aspro sapore.” Poi ancora: “L’afre (cotogne) ovvero pontiche, e stitiche, sono più fredde, e più dure a smaltire.” (E Cr. 5. 7. 7.)

In altre varianti terminologiche, ad esempio di uso medico, la parola pontico si associava alla stipsi, ovvero alla stitichezza. Così la Scuola medica Salernitana sostenne che il vino pontico “bene conforta lo stomaco, ma lo ventre costipa”. Lo stesso asserì un Herbolario volgare del 1522 quando affermò che “li pomi cotogni sono pontici, ovvero stitici”. E, dunque, il medico bolognese Baldassarre Pisanelli, nel suo “Trattato de’ cibi, et del bere” del 1611, citò il pontico a proposito delle prugne “verdi, dure, acerbe e pontiche”. Per concludere la carrellata anche il Gemelli, nel 1693, accomunò l’aggettivo pontico ad un vino spiacente. Insomma un gusto tra l’aspro, l’amaro e il pungente. Tutt’altro che gradevole.

In Francia, quasi nello stesso periodo, si parlava di vini estremamente acerbi, di vini piccoli (di poco valore) e la parola usata per descriverli è quella di ginguets : “Il y a des mots qui naissent entre nous par hazard et auxquels le peuple donne cours sans savoir pourquoi. En l’an 1554 nous eusmes des vins infiniment verds, que l’on appela ginguets”. (Ci sono parole che nascono tra di noi per caso e a cui le persone danno corso senza sapere perché. Nel 1554 abbiamo avuto vini infinitamente verdi, chiamati ginguets.  Pasquier Recherches, VIII, 43)

Sono i vini che, qualche secolo più tardi, lo scrittore Jean Giono evocò nel suo racconto « Le petit vin de Prébois” (il racconto è contenuto in “Faust au village” – 1977). Prébois è un minuscolo paesino di 160 anime nella regione di Triéves, dipartimento dell’Isére, nell’Alto Delfinato. La regione, dominata dal monte Aiuguille, è circondata da quello che lo scrittore descrive come “un chiostro di montagne”. “Troppo alti per avere delle vigne”- dicevanogli abitanti – “eppure ce le abbiamo. Dobbiamo averne circa seimila piedi. Tutti ne possiedono un pezzetto. Il nostro vino della festa è un miscuglio del verde più chiaro e dell’oro più dolce. (…) Ma come fate a berlo?- gli hanno chiesto mille volte – “Come facciamo? Ma noi non ci sforziamo; semmai dobbiamo fare uno sforzo per smettere di berlo. Ci piace che sia così aspro e acerbo, che raspi in gola, e che a qualcuno faccia anche lacrimare gli occhi[1]”. Un vino acerbo, come ci spiega Furetière, che fa danzare le capre: “Petit vin qui n’a ni force ni agréement au goust, mais qui est extremement verd. Tout le vignoble d’Ivry, de Vitry, &c. ne produit que du ginguet, du vin à faire danser les chevres.” (Un vino piccolo che non è né forte né piacevole alla vista, ma che è estremamente verde. Tutto il vigneto di Ivry, di Vitry, &c. produce solo ginguet, un vino per far ballare le capreFuretière Antoine 1619-1688. Dictionnaire universel)


[1] Jean – Luc Hennig, Eros & Vino, Sonzogno editore, Milano 2005, pp. 33, 34

Foto tratta da wikipedia Autore Nino Barbieri