Ai rigori! Notazioni sul gioco del calcio e le sue magagne

Di William Ralston (1848-1911) – Scanned from the book Historia del Fútbol, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43148046

Dopo che il capitalismo si è imposto come sistema globale, questi ha scatenato un po’ ovunque il suo figliolo prediletto, quello che aveva tenuto in serbo per la sua vittoria più matura e consapevole, piena e ragguardevole: il liberismo. Il figliol prodigo non agisce ovunque allo stesso modo: forte di una libertà d’azione mai avuta in precedenza si accorda con usi e costumi dei luoghi, con le mentalità più arcane delle genti, con le loro brame più sottili, con le voglie più durature, con i poteri più scaltri, con i tempi sempre più veloci e, proporzionalmente, sempre più corti. Il gioco del calcio professionistico è compreso in una partita ben più grande dove, come diceva un tempo la saggezza popolare, l’appetito vien mangiando. Forte di un rimando religioso, il gioco del calcio unisce, e per la stessa ragione divide, processi economici all’avanguardia, plusvalenze comprese, e un medioevo simbolico fatto di bandiere, sciarpe, schieramenti di truppe in campo e fuori, fairplay e non occasionali grandi evasori fiscali, ma prima di tutto beniamini, pulsioni orgasamtiche che vanno in gol e devozioni al cielo e alla terra (segni della croce e balletti), sontuose cattedrali nei più disparati deserti collocati sulla sabbia o su desolati manti urbani e, nei casi peggiori, antiche schiavitù fatte di sfruttamento e di morte.

Il figlioletto sbarazzino e cattivello del capitalismo più rapace si diverte come può: compra, vende, disfa, si aggrega per fondi sovrani e sovrumani, aggira, agghiotta, complotta, petroldollarizza, internazionalizza, affonda, recupera, scuote e si dimena. 

Sempre, però, con estremo rispetto per le consuetudini predatorie di coloro che si prostrano ai suoi piedi. 

Qui da noi il liberismo più burlone e divertito, costruttore di bolle di sapone tanto grandi quanto veloci ad esplodere, si è adattato ad un gioco ricco di pacche sulle spalle e di odi misurati, di compra-vendite con super-Pos per sovrafatturazioni volte a remunerazioni massimamente immeritate, di accordi crepuscolari al lume di un candelabro, di lettere mai spedite, di telefonate a casaccio, di frasi dette a bocca stretta, di folgietti sparsi, di sospetti a cascata e di cascate di sospetti. Scopriamo, dunque, che qualcuno forse ruba, fotte, si appropria, falsifica, agghiotta non senza aggottare e che qualcuno lo fa più e diversamente e meglio, finchè dura, di altri. Quando le pacchie finiscono sono sempre pacchie di altri e tornano ad esibirsi cappi come nella lontana Tangentopoli, ma solo per l’attimo che serve per una dichiarazione d’intenti; quella che conferma l’appartenenza ad un consorteria diversa e che poi rientra un attimo dopo aver sibilato  “che così fan tutti”, casomai. Siamo un popolo profondamente religioso e sappiamo altrettanto bene che le indulgenze hanno un prezzo come qualsiasi merce ben disposta in un mercato rionale. Quello che mal sopportiamo sono essenzialmente due cose: non essere al posto di un qualcun altro quando costui detiene un potere, meglio se predatorio; due, che questo costui si faccia beccare mentre depreda. Il fatto in sé ha valore in senso positivo o negativo nella misura in cui si portrae: il tempo è la misura della capacità e del valore del governante (non solo in senso politico). 

Il figlioletto agitato del capitalismo iconico e selvaggio qualora cada ha tutte le capacità per riprendersi: si specializza e affina le tecniche per i futuri saccheggi. Per fare questo ha bisogno di nuove classi dirigenti che sostituiscano quelle più logore e meno aggiornate del passato. Le pensiona con le buone o con le cattive, indipendentemente dal raggiungimento della vecchiaia agognata.

E così si potrà tornare a ballare intorno al cappio per un nuovo giro di danza. In fondo quel cappio è solo la corda che tiene uniti per non perdersi.  

Per un programma organico che diseduchi al vino e alle altre cose

Studenti-insegnanti praticano l’insegnamento in un asilo della Normal School di Toronto in Canada nel 1898
Di Ontario Ministry of Education – This image is available from the Archives of Ontario under the item reference code RG 2-257, Acc. 13522, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3486877

Al giorno d’oggi sarebbe necessaria una grande, poderosa e soprattutto collettiva campagna diseducativa che tocchi un po’ tutti temi, le apprensioni, le convulsioni e quindi anche il vino. Intendo perciò concentrarmi sul prefisso “dis-“ e non tanto per quello che riguarda i suoi aspetti negativi, ma in ragione dei suoi esiti privativi: annullare gli effetti di una educazione ricevuta. Viviamo in un mondo tremendamente maleducato sia nelle restituzioni formali e convenzionali sia nei tratti di contenuto o etici. Ed è soprattutto in ragione di questo che sarebbe opportuno diseducare i più a tutto quanto hanno appresso sino ad ora. Me compreso. Ma non si può affatto pensare che il percorso sia semplice: così come la mala educazione è stata assimilata sin dall’infanzia più polverosa, allo stesso modo la diseducazione necessita di un processo lungo e tortuoso. La disassuefazione richiede molta pazienza, accentuate virtù, moltissima concentrazione e applicazione costante.

Due sono i fondamenti da cui partire per volgere a nostro favore lo sviluppo diseducativo:

  1. Gli oggetti inanimati, le cose, i manufatti non parlano, anche se si può comunicare con loro (principio di schizofrenia, panteismo o, per alcuni, segno di grande intelligenza).
  2. Alcune cose non si possono insegnare, nemmeno comunicare, tutt’al più trasmettere. Da questo ne consegue che anche il vino, benché sostanza viva, si risolva per la sua fondamentale qualità auto-definitoria: esso non spiega nulla di se stesso più di quanto abbia qualcosa da dire.

Si può arrischiare di insegnare le modalità di produzione, di coltivazione della vigna, ma non si può insegnare il vino: c’è una parte dell’incontro, legato alla sincronicità dell’atto, che non è descrivibile. Questo aspetto di simultaneità è ciò che rivela tanto l’atteso quanto l’inaspettato. Una introduzione al vino che tenti di decifrarlo rischia di avere una funzione pre-digestiva.

Quindi non se ne può parlare, non esistono criteri per parlarne eccetera?

Al contrario: è nel dialogo imprevedibile e traballante tra più soggetti pronti allo smarrimento e alla privazione, anche solo parziale, delle proprie certezze che può aver luogo quel momento irripetibile nel quale qualcosa si traferisce dall’uno all’altro. Questa cessione non è priva di ancoraggi poiché ognuno di noi è intrecciato ad un testo sociale di rilievo: non tutti allo stesso modo e non tutti con le medesime pratiche, conoscenze eccetera eccetera. Ma non è a quel rilievo che si può concedere lo spazio che già detiene, ma allo scambio che interviene nello stupore, nell’indecifrabile. E per concedere che questo barlume di indeterminatezza trovi un varco occorre lasciare spazio ad un ampio programma di diseducazione personale e collettivo.

“Me nonu l’à mai campà l’ua an tera”. A tavola con produttori veraci del Monferrato e del Grignolino. Di Andrea Ferreri

Di Davide Papalini – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11259547

Nelle sere estive più calde in alta collina, quando si portano a termine i lavori in campagna e il sole è sul punto di salutarci, si arriva a far notte nel sollievo del fresco e la pace concede di non sentir alcun rumore intorno se non il ronzio degli insetti o il passaggio di qualche animale.

Il panorama si armonizza al luccichio delle lucciole e delle stelle.

La ranghinatura nei campi o i trattamenti di notte tra i filari consentono di percepire quell’eccitante profumo di erba bagnata che sa regalare gioia alle narici e ai polmoni.

Per un contadino e un vignaiolo del Monferrato questo è uno tra i momenti più belli e felici della vita. Alla fatica del giorno sopraggiunge un sorriso e la soddisfazione di un lavoro portato a termine. La bellezza di poter ascoltare ogni suono nel silenzio, aiuta a ricordare di quando da bambini, nelle notti di luna piena, si era seduti con il nonno ad ascoltare storie di caccia mentre i segugi abbaiavano rincorrendo le lepri in calore.

Ricordo quando da bambino mia mamma tornava da Casale Monferrato per lavoro. Ogni volta portava a casa una cassetta di latta con dentro i biscotti “krumiri”. È sufficiente ripensare a quei momenti per rivivere e risentire certi profumi e fragranze.

Vorrei essere io oggi a portare mia madre nel Monferrato, l’accompagnerei tra le colline per godere del bellissimo paesaggio, per assaporare i vini di questo territorio. Da ragazzino non sapevo apprezzare certi sapori e con questo viaggio immaginato, vorrei dimostrarle che crescendo alcune idee si cambiano: ne ho cambiate poche, ma sono sicuro che la sorprenderebbe la mia sempre più importante passione per il vino. Questo interesse inizia dall’incontro con le persone e dal transito di territori, tutte esperienze indispensabili per potere assaporare appieno un vino.

Tra i vini che potremmo assaggiare avrei sicuramente il piacere di ricercare quelli più rari, a partire da vitigni antichi e riscoperti, come la Malvasia del Monferrato, che i viticoltori Casalone hanno recuperato e valorizzato per l’aromaticità e versatilità di produzione a Lu Monferrato.

Il Baratuciàt, tipico vino della Val di Susa vinificato con grande successo da Gabriele Athos nel Monferrato a Murisengo.

Oppure andrei a ricercare la Balsamina, vitigno autoctono non iscritto al Registro Nazionale delle varietà di viti, ma di cui ogni vignaiolo più attento ha mantenuto tra qualche filare.

C’è un vino in particolare di cui sarei ancora più curioso e che vorrei maggiormente condividere e assaporare, il Grignolino. Credo che questo vino, più di tutti gli altri, riesca a raccontare e rappresentare quello che è il Monferrato, mostrandoci come questa zona si differenzi da tanti altri territori e come questo vino sia unico nel panorama vitivinicolo.

In questa zona del Piemonte l’urbanizzazione non ha preso il sopravvento e si sono mantenuti piccoli centri dislocati tra di loro. Le colture sono variegate, la superficie è prevalentemente coltivata a seminativi, seppur siano presenti, specialmente in alcuni luoghi, frutteti e vigneti. Anche l’area boschiva è ampia, seppur la preponderanza di robinieti1 indica l’abbandono di alcune aree volte a testimoniare le politiche agricole degli ultimi cinquant’anni, a cui sono seguite le mode e le esigenze del profitto e del mercato.

Come testimoniano i libri di Nuto Revelli la conseguenza di tutto questo è stato l’abbandono delle campagne e l’esodo verso le città e le fabbriche, capaci di garantire un reddito sicuro e migliore specialmente per le comunità che vivevano di un’agricoltura di sussistenza.

A tavola con i produttori. Alla trattorie Serenella di Vignale Monferrato. Foto di Andrea Ferreri

Anche in campagna, oltre al problema dell’abbandono, la ricerca del successo e del profitto ha spinto a monocolture e mono-varietà, indebolendo e impoverendo così le campagne sia dal punto di vista economico sia da antiche e preziose conoscenze.

I noccioleti sono un esempio di una coltura importata nel Monferrato perché non avrebbe richiesto maggiore lavoro né interventi fitosanitari, mentre nel tempo ha portato con sé agenti chimici e cimici.

C’è chi dice “per colpa della Ferrero”, mentre altri che pensano che siano stati gli stessi agricoltori a seguire la tendenza del momento: qualunque sia la causa, mercato e moda portano benefici economici nell’immediato, creando però desertificazione del suolo e contribuendo alla sconfitta del mondo agricolo e contadino.

Ho avuto l’occasione di sedermi a pranzo con cinque produttori di diverse zone del Monferrato prevalentemente Casalese, insieme a due vignaioli del Roero, anche loro innamorati del buon vino, della bella compagnia e affascinati dalle tante storie che ogni uomo e ogni donna con le mani nella terra sa e riesce a raccontare.

Le differenze del territorio e le diverse annate si sono ben espresse negli assaggi, mentre non si è volutamente dato conto alla conduzione agronomica o alla denominazione riportata in etichetta. Come condiviso a tavola “che sia Monferrato Casalese, Piemonte o Vino Rosso, l’importante è che sia Grignolino…in purezza”, ognuno fa il Grignolino alla sua “manera”e per fortuna.

Il Grignolino non può e non deve essere omologato ad un gusto, è un vino particolare, diverso per annata e territorio.

La vinificazione del Grignolino è tra le più difficili e le più problematiche: si rischia di avere ossidazioni, oppure andare in riduzione, diventare molle o essere sgradevole per tannini eccessivi e acerbi.

Le certificazioni non hanno importanza per loro: tutti i vignaioli presenti vivono e lavorano la propria terra. Tra questi produttori c’è Francesco Brezza di Tenuta Migliavacca: fa il letame con le sue mucche che mangiano il grano, l’orzo e il fieno coltivato dalla stessa tenuta. Lui dichiara: “poi tutto questo c’è chi lo chiama biologico, biodinamico, bio. Ma nel mondo moderno non si riesce più a capirne il significato…l’importante è come viene fatto il vino”.

Ogni produttore si mostra giustamente fiero e orgoglioso del Grignolino: il motto da tutti conosciuto é “pan de dui dì, grignolin de dui ani, tòta de vint’ani”, da cui si capisce come questo vino già tradizionalmente giunga al suo apice qualitativo a due anni dalla vendemmia e necessita di gioventù.

A tavola con i produttori. Alla trattorie Serenella di Vignale Monferrato. Foto di Andrea Ferreri

Le donne hanno acquisito, nel corso del tempo, ruoli sempre più importanti e fondamentali nel mondo del vino e del territorio, come testimoniano Teresa e la nipote Bianca, rappresentanti di Cascina Tavjin, e Tiziana, moglie di Silvio Morando, che si prende cura dell’agriturismo, “La Locanda degli Ultimi”.

Ognuno dei vignaioli, come scritto poc’anzi, per produrre lo stesso vino, segue la propria strada, spesso definita dalle tradizioni familiari.

In alcuni casi, assaggiando i vini, si percepisce la mano del produttore: c’è chi ha compiuto studi più tecnici o i propositi del giovane enologo, ma in tutti i casi possiamo parlare di vini di terroir, espressioni autentiche del territorio e della base ampelografica.

Difatti la prima e vera distinzione dei vini deriva dal tipo di terreno in cui è impiantata la vite e dall’annata di vendemmia.

L’autenticità di questi vignaioli la si denota anche dalla loro puntuale e severa osservazione del mondo e non solo di quello del vino.

Ci tengono a distinguersi per vini e territorio da zone commercialmente più attive come le Langhe, seppur il timore sia quello di un mondo sempre più omologato: “Le stalle si sono trasformate in sale di degustazione, nessuno produce più latte, ma bisognerà pur mangiare.” La richiesta: “Lasciateci lavorare in campagna, produrre bene”, “Io non voglio gnun”. Il contadino è sparito per diventare manager, i parcheggi hanno rubato spazio al verde. Il turismo di massa mortifica il paesaggio, la speranza di tutti è che il Monferrato si mantenga per quello che è.

L’animo contadino è presente a tavola, che non si parli di diradamento, “me nonu l’à moi campò l’uia in tera”, “il diradamento è nella forbice quando poti”, è un contro senso “portare a maturazione tutta l’uva, spremendo e sfruttando la pianta per poi tagliare i suoi frutti”.

Come vuole il buon senso contadino e come mi ammoniva anche mia nonna, “non si butta via niente!”.

È giusto sottolineare che l’uva grignolino presenta maturazioni diverse nella stessa pianta e addirittura nello stesso grappolo. Questo significa che per il vignaiolo risulta necessario effettuare più vendemmie nello stesso vigneto e anche una cernita in cantina dell’uva raccolta.

Ovviamente l’uva migliore servirà per fare il vino più pregiato.

Oltre alla pressa ad aria c’è ancora chi utilizza il vecchio torchio e i ricordi ritornano all’utilizzo che se ne faceva una volta. Francesco Brezza ricorda “mio nonno torchiava con il torchio Bazzi (ancora presente e utilizzato in cantina), disfaceva le vinacce, ricaricava il torchio e torchiava nuovamente”. Anche Silvio Morando racconta: “io da bambino, quando torchiavamo il primo vino in damigiana, si disfaceva il resto a mano con la bigoncia in cantina e poi lo ributtavamo nel torchio con una piccola innaffiata. Poi andavo dentro nel torchio, pestavo tenendomi appoggiato con una candela dentro e torchiavamo una seconda volta il vino da bere per noi e la terza passata era il vino da dare alla distillazione fino all’ultima stissa”.

Degustazioni

Cascina Tavjin, Grignolino 2021

Il primo vino assaggiato è della cantina di Nadia Verrua, siamo nel Monferrato Astigiano a Scurzolengo, al limite con il Casalese. I terreni di queste zone risultano più asciutti e meno compatti, con maggiore presenza di sabbia e argilla.

Al naso il vino ci regala note di frutta rossa e un fiore che ricorda il geranio. Si percepisce una nota pungente e una piccola riduzione che con il tempo si affievolisce, mostrandoci un vino sempre più gentile.

In bocca il vino è accompagnato da una nota tannica e rinfrescante. Richiama alla beva, ricorda spontaneità e sincerità.

Tenuta Migliavacca, Grignolino 2021

Questo vino è prodotto in terreni calcari e argillosi alle porte di Casale Monferrato, nel borgo di San Giorgio Monferrato. Blocchi di marna calcarea scura, da cemento, tengono l’acqua garantendo maggiore riserva idrica.

Il vino al naso è delicato con una lieve nota speziata di anice. È in bocca che si apre e si esprime grazie a un tannino deciso e un sorso verticale che si mantiene nel tempo.

Ha carattere e mantiene la piacevolezza: riassaporando il vino, il tannino vira tra il vellutato e una nota spigolosa che consente piacevoli e differenti accostamenti culinari.

Cascina Isabella, Monte Castello Grignolino 2021

Gabriele “Athos” ci accompagna con il suo vino nella Valle Cerrina, a Murisengo, ultimo comune a ovest della provincia di Alessandria.

Zona ricca di marne calcaree bianche e con presenza di tufo. I due vigneti in cui è impiantato questo grignolino si trovano nelle migliori posizioni per esposizione solare e altitudine, anche se negli ultimi 10-15 anni la necessità è stata quella di scendere verso valle.

Monte Castello 2021 si presenta al naso fruttato e agrumato, accompagnato da una nota di spezia dolce. All’assaggio il tannino si esprime deciso, vellutato e ben integrato alle note odorose. Una spinta amplificante dona elegante persistenza.

Azienda Vinicola Casalone, Grignolino, 2020

Con il quarto assaggio ci portiamo verso l’alessandrino, a Lu Monferrato, dove si trovano terreni sabbiosi con marne calcaree e arenarie.

Il vino emana note di frutto di melograno legate a sensazioni mentolate e di liquirizia. In bocca abbiamo una bevuta verticale equilibrata da una buona rotondità, particolarità di questo vino se pensiamo agli altri Grignolino assaggiati. Nella persistenza non inganna la sua essenza: il lungo finale è legato all’acidità e al tannino.

Cascina Isabella, Monte Castello Grignolino 2019

Rispetto all’annata 2021 dello stesso vino assaggiato in precedenza, in questo millesimo la macerazione è stata inferiore, con minore estratto.

Il profumo ricorda altri Grignolino assaggiati, con frutta rossa, spezie dolci e liquirizia. Il tannino è molto equilibrato e legato alla freschezza.

Un Grignolino che si avvicina molto a un Pinot Nero, l’unico vitigno a cui in alcuni casi si può paragonare

Silvio Morando, “Anarchico”, Grignolino, 2019

“Dove c’è tufo, c’è Grignolino”. Vignale Monferrato è ricco di tufo e formazioni sedimentarie di depositi marini, a testimonianza che questa area fu un tempo fondale marino.

Il vino si esprime al naso con note di frutta rossa, specialmente ribes, fiori che ricordano la viola e una nota salina.

Assaggiandolo, il vino si esprime con un tannino fruttato, pieno. Si presenta ancora austero nel suo raggiunto equilibrio. Il sorso è lungo e di carattere.

Valfaccenda, Grignolino 2020

Luca Faccenda, da attento e appassionato vignaiolo del Roero, si è innamorato del Grignolino. Da questo amore è nato il desiderio di vinificare a casa propria questo raro e prezioso vitigno.

Il suo Grignolino ci porta profumi di frutta di sottobosco e spezia dolce, come al naso si mostra invitante anche in bocca: è un vino fine ed equilibrato. A differenza di altri Grignolino assaggiati, la freschezza è più percettibile del tannino.

Di facile beva non perde di profondità

Cascina Tavjin, Grignolino 2018

Questo vino si è dimostrato da subito uno dei più complessi al naso con richiami ben definiti, anche facili da percepire. Una nota aromatica ed erbacea elegante con richiami alla salvia e all’alloro. La frutta percepita in questo caso ricordava la prugna secca.

In bocca da subito con la sua pungenza invitante, rimane equilibrato. Un vino da bere e godere.

Silvio Morando, Grignolino 2012

“Ho voluto mettere alla prova il Grignolino in un’annata davvero sfigata!”; dopo 10 anni il colore è ancora vivo nel suo mostrarsi diverso già alla vista rispetto a tutti gli altri vitigni. Il naso è invitante e giovanile con note di frutta rossa e noce moscata. In bocca però percepiamo che seppur non arrendevole, grazie ad una spiccata acidità che lo mantiene integro e in piedi, si denota una sua debolezza data dal tempo passato.

Questo assaggio è istruttivo a livello organolettico, ma credo possa insegnare qualcosa anche a livello umano. Sembra che mi voglia raccontare anche lui una storia, “posso non essere bello e reattivo come prima, ma io sono e continuo a essere Grignolino.” Io non posso che rispondergli: “Viva il Grignolino!”

Alberto Oggero, Roero Rosso, 2020

Grazie ad Alberto Oggero, abbiamo l’occasione di assaggiare un Nebbiolo di Santo Stefano Roero. Grignolino e Nebbiolo condividono una buona dotazione di polifenoli ed una modesta presenza di antociani. Ma se il Grignolino ottiene la sua tannicità dai vinaccioli conferendo al vino una sensazione astringente più amarognola, nel Nebbiolo la tannicità deriva dalle bucce con una maggior eleganza nella sua pur presenza austera.

Difatti con questo profumato e fine vino, si denota un tannino mentolato che riempie la bocca nel gusto e nelle sue sensazioni odorose di violetta, ciliegia e balsamo.

Silvio Morando, Clandestino, vino rosso dedicato a tutti coloro che lottano per un mondo senza frontiere

Il pranzo termina con una dolce, inaspettata e gradevolissima sorpresa. Un vino da merlot, cabernet e syrah di bassa acidità, molto corposo e ricco di alcol. Da una vecchia ricetta godiamo di un vino che vuole farci meditare. Grazie ai suoi suadenti profumi e alla piacevolissima beva, grazie a variopinti profumi ci porta con la mente in molti paesi del mondo.

Bevendolo è come se ci sollevasse dai problemi, ma sappiamo che al mondo c’è chi lotta e resiste per i propri diritti di esistenza. Non possiamo che brindare, augurandoci che la lotta possa servire ad apportare benessere a ogni donna e uomo sulla faccia della terra.

1 Boscaglia con prevalenza di robinia, spesso accompagnata da arbusti quali sambuco e vitalba

Il vino cattivo, brutto e ingiusto

Ace High Wallach
Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1128674

Il vino cattivo, brutto e ingiusto non è necessariamente un vino industriale e non è neppure, coerentemente, un vino difettato, convenzionale, bio o qualcosa d’altro.

Allora, chiederete voi, come si riconosce un vino cattivo, brutto e ingiusto? Vi dirò la mia, perché nel tempo mi sono fatto un’idea che è poco più di un’idea.

Bisogna stare attenti perché il vino cattivo, brutto e ingiusto è infido, assai infido. Prima di tutto lo si riconosce dal suo abito esteriore: dimora spesso in bottiglie di nessun pregio imbellettate da etichette che richiamano un passato gentilizio, di grado, la cui memoria ristagna in antiche battaglie mai combattute o perse a tavolino e commemorate da superbe ubriacature.

Uno stemma araldico, collazione di più scarabocchi su cui si erge un destriero, oppure uno scudo, oppure due o tre spade incrociate e un motto latino appena pescato in qualche orinatoio, strizzano l’occhio al bevitore distratto. Altre volte l’immagine ammicca alla modernità cubista e sbarazzina. Il tappo non potrebbe sapere di se stesso neppure lo volesse: nessun liquido lo tange o lo penetra, tanto meno quello che con così poca premura custodisce.

Il vino cattivo, brutto e ingiusto è tremendamente monotono, piatto, insipido, fortemente concentrato ed estremamente diluito allo stesso tempo; in ogni forma in cui appare, esso inganna: se scuro, impenetrabile ed ermetico all’occhio, lascerà al naso un blocco unico di odori ammassati e incartapecoriti, variegati rimandi a frutti stramaturi che furono, a spezie già largamente tramontate sulla via del ritorno, a gambi stecchiti di fiori sui cigli di autostrade assolate. E l’alcol che viene copre, ricopre, trasborda, ammorbidisce, surriscalda, ingloba e confonde. Invade il cavo orale come un bullo di quartiere i cui muscoli sono pompati da ettogrammi di anabolizzanti: ma così come entra se ne va in brevissimo tempo. Crolla come un sacco floscio, lasciando qua e là eccedenze aromatiche della sua protervia. Se vivido e vivace lo è come la patina di una pellicola d’alluminio. Lancia fendenti di lamine appena insaporite da un qualsiasi frutto acerbo, pompato dall’azoto, che sia maturato in celle frigorifere.

Il vino cattivo, brutto e ingiusto non ha difetti palesi, perché l’unico modo in cui si palesa è nel pregio della nullità. Non restituisce un territorio, un vitigno, una fatica, né da essi è invitato ad esprimere alcunché: è indistinto tanto nella forma quanto nei richiami; contiene tutto, il contrario di tutto e mischia al ribasso: fatiche, prezzo, vini altrui.

Il grignolino e “l’Anarchico” di Silvio Morando. Di Andrea Ferreri

Mia breve descrizione (Andrea Ferreri):

Alla ricerca di storie e avventure, sommelier e comunicatore del vino, la passione mi permette e mi sprona a leggere, scrivere e riflettere.

Il vino per me è collegamento tra fatica e piacere, un viaggio tra l’irrazionale e l’applicato.

Foto di Andrea Ferreri

“Il Grignolino e le ultime elezioni politiche”,

Il Grignolino, come sua consuetudine, anche quest’anno non si è recato alle urne, astenendosi dal voto. Considerato un bianco tra i rossi e un rosso tra i bianchi, non si è mai sentito rappresentato da qualche altro vitigno. Non è neanche in grado di rappresentare bene se stesso dal momento che, nei suoi diversi territori prediletti, Monferrato e Astigiano, si comporta in modo differente: anche quando cresce nello stesso vigneto è capace di mostrarsi diverso nelle varie annate. A questa varietà piace ascoltare le stagioni, il clima e il passare del tempo: i grappoli della stessa pianta hanno sovente maturazioni disuguali e, addirittura, il medesimo grappolo può mostrare acini in più stati di avanzamento. In fin dei conti il Grignolino non è un vino comune: non ha un colore avvenente, è di pochi muscoli, in alcune annate diventa più rabbioso e si mostra maggiormente nervoso. In queste situazioni si presenta nella sua massima espressione, tirando fuori tannino e sapidità. La morbidezza è un privilegio di cui il Grignolino non ne sente la necessità. Questo vino sa adattarsi alle diverse situazioni della tavola ed è soprattutto vino della convivialità, perfetto per lo stare insieme. Potreste sentire varie voci sul Grignolino, alcuni lo evitano o peggio lo denigrano, ma per chi lo sa ascoltare e se ne appassiona, questo è il vino.  

L’Anarchico, il grignolino di Silvio Morando – Foto di Andrea Ferreri

“L’Anarchico, il vino di Silvio Morando”

Il 7 maggio 2022 mi sono recato a Vignale Monferrato presso la cantina del vignaiolo Silvio Morando attirato dall’etichetta di uno dei suoi vini, ”L’Anarchico”. La spiegazione del nome all’etichetta deriva senz’altro dalle caratteristiche del grignolino, ma la motivazione è anche da ricercare nella storia di famiglia del vignaiolo. L’ispirazione dell”’anarchico” è difatti anche un omaggio allo zio Silvio, fratello del nonno, nato nel 1888, che condusse una vita fuori dagli schemi. Partecipò alla guerra di Libia, alla I Guerra Mondiale e seguace poi di Errico Malatesta[1], mosso dai suoi ideali, partì volontario nel 1936 per la guerra di Spagna dove conobbe Buenaventura Durruti[2]. Al suo ritorno, nel 1939, piantò la vigna. La scheggia di mortaio sul braccio impossibile da togliere e con cui visse tutta la vita rappresentò una testimonianza della sua storia. Tante sono le storie legate allo zio Silvio. Come quando nel 1913 venne incarcerato in via preventiva per una settimana, per la presenza in Italia dello Zar Nicola II, in quanto considerato e catalogato negli archivi di stato come ”anarchico pericoloso”, insieme ad altri compagni. Il papà di Silvio Morando ha raccontato al figlio di quando da bambino, esattamente il 10 luglio 1940, andò a chiamare lo zio che si trovava nel vigneto a passare il verderame con la pompa a spalla. Il duce era in paese per tenere il ”discorso sulla guerra” e Silvio sfasciò la pompa contro il trogolo maledicendo il duce che avrebbe portato l’Italia in guerra e miseria.

Foto di Andrea Ferreri

 Il vino che vorrei raccontare è proprio ”l’Anarchico”, il Grignolino della vendemmia 2020, assaggiato con Silvio Morando, che ha accompagnato la nostra conversazione su temi legati al vino, al lavoro, alla vita, insomma all’anarchia. Assaggiare questo vino il 7 maggio 2022, a cinquant’anni dalla morte dell’anarchico Franco Serrantini[3], avvenuta in carcere a seguito di percosse e senza alcun soccorso medico dopo due giorni dal suo arresto nel corso di una manifestazione antifascista indetta a Pisa, rende l’assaggio stesso di questo vino unico e irripetibile. La bellezza del vino sta nella necessità di chiudere gli occhi, di farsi trasportare e saperlo ascoltare, in quanto ”il vino è un valore reale, perché ci dona l’irreale”. Anche Renato Ratti, persona avanti con i tempi, nelle sue lezioni alla scuola enologica di Alba diceva che in una bottiglia si trovano rinchiuse la storia e la vita di chi ha prodotto quel vino. L’uva del grignolino ha disformità dalla nascita e diversità di maturazione, sono necessarie tre vendemmie per portare in cantina i grappoli alla giusta maturazione ed è necessaria anche una successiva cernita a seguito delle raccolte. Questo Grignolino viene macerato per pochi giorni a grappolo intero e completa la fermentazione in piccole vasche. Vasche separate per vigne con caratteri diversi, tutte da vigne vecchie. L’affinamento avviene solo in acciaio per alcuni mesi e, una volta imbottigliato, necessita alcuni mesi di riposo prima di essere commercializzato (di solito intorno a settembre dell’anno successivo alla vendemmia). Di questo vino se ne producono circa 2000 bottiglie a seconda dell’annata, con una resa per ettaro di circa 50 quintali. Le etichette dei vini di Silvio Morando sono state disegnate da Cecilia Bozzoli[4], illustratrice di Uscio (Ge) che vive a Losanna, autrice di un libro a fumetti “Celeste bambina nascosta” che racconta la storia della migrazione italiana in Svizzera attraverso gli occhi e l’esperienza di una bimba. Nel 2017, al 90° anniversario dell’uccisione di Sacco e Vanzetti[5], venne prodotta una magnum con riportata una dedica ai due emigrati anarchici, mantenuta per tutte le successive etichette de ”L’Anarchico”. Il colore di questo vino è di un rosso sangue arterioso, un sangue pulito necessario a lavar via la sporcizia del mondo, il profumo è fruttato con ricordi di frutti di bosco e ciliegia sotto spirito, note di grano e nuance di rosa appassita accompagnate da una nota salmastra. Profumi che ricordano i campi, la libertà e anche il lavoro. In bocca il vino è deciso, sia fresco che tannico. Con una bella intensità palatale e una piacevole persistenza. Un anarchico puro che ben si gusta o meglio si beve, perché a chi lo ascolta sa farsi voler bene. Mi è capitato successivamente di fare una piccola verticale delle annate 2020 e 2021, due vini differenti con un’ultima annata che risulta al naso più fruttata, con sensazioni anche agrumate e una bocca ancor più piacevole ed elegante. Possiamo definire nel 2021 un ”anarchico” più borghese e ingentilito rispetto alla vendemmia precedente. Terminerei il racconto sul vignaiolo Silvio Morando con la sua scelta commerciale di non vendere il vino ai paesi in cui è in vigore la pena di morte. Ricordiamo come da ultimo rapporto di Amnesty International del 2021, 55 paesi al mondo detengono la pena capitale, tra cui gli Stati Uniti, il paese dove l’Italia mantiene il più importante business per il vino (dati Istat), il Giappone, undicesimo paese per valore di vino esportato, la Russia, la Corea del sud e la Cina, paese con il più alto numero di esecuzioni sebbene il reale ricorso alla pena di morte rimanga un numero sconosciuto e non solo in quest’ultimo paese. Il numero delle esecuzioni è a volte ignoto poiché rientrante nelle informazioni classificate come segreto di Stato.


[1] https://www.anarcopedia.org/index.php/Errico_Malatesta

[2] https://www.anarcopedia.org/index.php/Buenaventura_Durruti

[3] https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/17966-franco-serantini

[4] http://ceciliabozzoli.com/

[5] https://www.anarcopedia.org/index.php/Sacco_e_Vanzetti

Le foto sono di Andrea Ferreri

Molti premi, nessun premio? Molti premi? Nessun premio?

Di Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza
– Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6773653

Molti premi,

nessun premio

Molti premi?

Nessun premio?

Molti nominati,

nessun nominato

Molti sono tanti o sono troppi?

Se il molto è un tantino di più del tanto

Allora il tanto è un tantino meno del troppo

Ma se il molto è come il troppo

Allora anche il tanto è come il troppoBisogna intendersi sul molto, sul tanto e sul troppo.

Bisogna intendersi sul molto, sul tanto e sul troppo.

E sugli –ismi:

sui moltismi, sui tantismi e sui troppismi.

E sui premi.

Sottosopra. Un quagliano tirato a lucido

Dalla campagna, dove mi trovavo

Scrivo a proposito del loro vino solamente perché non glielo avevo promesso, così come non lo  prometto ad alcuno a meno che non mi paghi, anche lautamente, e allora finisce proprio nel dimenticatoio. 

Dei Fratelli Rosso conosco sicuramente il peggiore, Gabriele. Scopro da facebook che si sono messi a produrre vino: non bastava che Gabriele ci scrivesse sopra, lo distribuisse, doveva mettersi pure a farlo. Crisi di mezz’età, militanza in Possibile,… chissà. I Fratelli Rosso hanno pure le vigne a San Martino di Busca e ho detto tutto. Ma con quali uve fanno il vino? Il quagliano al 90% e un 10% di dolcetto. Ma stiamo scherzando per davvero? Luigi Veronelli, ne “I vini d’Italia”, definì il quagliano un vino  ‘simpatico’ (1961).

Non so dalle vostre parti, ma dalle mie quando si descrive qualcuno come “simpatico” significa che sarebbe meglio valutare, di costui o di costei, le caratteristiche caratteriali più profonde, quasi intrinseche, talvolta introvabili e sicuramente non quelle estetiche: simpatico quel ragazzo! simpatica quella ragazza!

Poco più che adolescente spasimavo per una compagna di classe e le sue amiche (non certo le mie), per convincerla a mettersi con me, le dicevano che ero simpatico. E lei non mi degnava neppure di uno sguardo! Poi sono diventato bello e la natura ci ha messo sopra una pezza. 

Simpatico il tuo vino! Se dicessero così di un mio vino, sprofonderei in un baratro di barrique usate di quarto passaggio. Veronelli si riferiva al quagliano dolce, la versione maggiormente in uso da quelle parti. E i Fratelli Rosso invece lo tirano a lucido e si permettono di farlo secco: “come si faceva una volta” – mi dice Gabriele. “Beh, se lo facevano una volta e non lo fanno più”- penso io – “una buona ragione ci sarà!”. 

Hanno vinificato il quagliano e il dolcetto separatamente: il quagliano, colto a fine del settembre 2021, ha fermentato in vetroresina sulle bucce per cinque giorni (con un 15% della massa a grappolo intero). Una volta svinato è andato a secco due giorni dopo. Il dolcetto, staccato (così si dice da quelle e da altre parti in Piemonte e non solo) agli inizi dello stesso mese, ha fatto la fermentazione con le bucce per otto giorni in un mastello di plastica. Un mese prima dell’imbottigliamento li hanno assemblati. Le fermentazioni sono spontanee. 12% di alcol

Mi tocca comprarlo: se voglio parlarne male debbo essere perfettamente in regola. E devo pure pagarlo, che non si dica che ne parlo male a ragione non veduta. 

Il colore è accattivante, un bel rosso rubino scarico. E già questo non mi piace per niente. Il naso accenna già alla bocca: fragole e fragoline di bosco, piacevolmente speziato, geranio, violetta e vivace aromaticità del vitigno in ritorno. Acidità molto sostenuta controbilanciata dal tannino del dolcetto. Da bersi preferibilmente fresco; da bersi preferibilmente con degli antipasti del vecchio Piemonte o in una conturbante merenda sinoira. Da bersi.   

Il vino postumo

Allegoria dell’immortalità, dipinto di Giulio Romano, 1540 ca
Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3659348

Il vino postumo mostra molte più variabili sensoriali di quando era in vita e affronta con inusitata spregiudicatezza i bevitori che non aveva mai osato avvicinare.

Anche nel corpo appare mutato. Se prima era calibrato tanto nelle componenti tanniche quanto negli zuccheri, così come nell’alcol e negli acidi, ora svela una impressionante avventatezza nell’esibizione della voltatile e una censurabile rassegna di residui secchi che mal si addicono ai lenti ritmi dell’aldilà.

Pare, dunque, che l’immortalità di un vino aggravi, secondo una particolare legge dell’involuzione perenne, quei lievi difetti mostrati un gioventù.

Il vino giovane si affaccia lieve, riservato e introverso al flebile palato dei suoi sciupati avventori; in piena maturità straborda arroganti piacevolezze; da morto non si trattiene più: scatena irriverenti memorie, fino a quando non compaiono appunti di assaggiatori previdenti che svelano le menzogne di una vita.

Pochi sono i vini che sanno invecchiare e ancora meno quelli che sanno essere morti.

Considerazioni approssimative sui rifermentati in bottiglia dopo aver assaggiato quelli di Cascina Melognis quando agosto travalica in settembre e si lascia alle spalle la luce estiva

Dalla mia tavola

Negli ultimi anni, trainati dal fenomeno (disambigua) prosecco, sono esplosi qua e là i rifermentati in bottiglia. Questioni di mercato, di appeal, di gusti, di marketing, di palati che si modificano nel tempo, di freschezze agognate, di birre acide, di traslazioni e apparentamenti e chi più ne ha più ne metta, poco importa. Quello che si nota è che in zone lontane da quelli che furono e che sono i territori di elezione, vocazione e storia, i rifermentati si producono un po’ dovunque. E un po’ dovunque con successo. Di sgabuzzino, di nicchia, di nicchiona, ma tant’è.

Cosa mi pare di aver capito da tutto ciò? Ben poco, se non questo: i rifermentati in bottiglia (metodo ancestrale alla Francese, Pét-Nat, ovvero Pétillant Naturel, metodo ancestrale all’Italiana) sono assai esigui rispetto ai volumi totali espressi dai rifermentati (tutti compresi) realizzati nei territori in cui hanno avuto origine e sviluppo. Sono tornati in auge o perché qualche piccolo produttore ha voluto dare nuovamente lustro ad un’antica tradizione, o perché non si è mai smesso di produrli in quel modo o come pura e semplice testimonianza di un passato che amplia la gamma dell’offerta presente che va in tutt’altra direzione (grandi aziende e corposi consorzi).

Di fronte a tutto questo, visto il richiamo della foresta dei gusti che in questo momento ulula alla volta dei rifermentati a bassa gradazione, freschi e accattivanti, anche altri piccoli viticoltori sparsi qua e là nella penisola italica si son prodigati nella produzione di rifermentati in bottiglia. E con successo. E questo successo, fatto di apertura e disponibilità della clientela, a mio parere, premia solo parzialmente i vitigni e il terroir di provenienza, ma, e soprattutto, il metodo di produzione. In traduzione libera: non mi importa dove lo fai e con quale uve, mi interessa che il processo produttivo porti al risultato finale desiderato. Voi mi direte che fare un rifermentato con la glera, il cortese o la malvasia moscata cambia. Che farlo in un determinato territorio cambia e che fatto da certe o talaltre mani cambia ancora. E vi do ragione. Come se non vi do ragione! A palate! Ma rimango convinto della mia: vini leggeri di grado, giocosi al palato e quasi incomprensibili alla vista si gingillano spensierati con gusti dei più noncuranti del dove e del perché. Ma non del come e solo dopo, magari, del dove e del perché. Da tutto questo la possibilità di successo di un vino prodotto a mille miglia fisiche e mentali dai territori a vocazione storica. Per altre tipologie di vino sarebbe assai più complicato. E non ditemi di no. Parrebbe che la disponibilità all’apprezzamento di tali vini superi la loro collocazione geo-politica. Sì tratterebbe, dunque, di una disponibilità a prescindere e a discendere.

Chiacchierando, infine, con Michele Fino, mi accennava che i suoi rifermentati vanno alla grande e, in Piemonte, soprattutto il rosato.

Anche questa volta ho elucubrato su quanto riferitomi. Ho assaggiato (diciamo bevuto) entrambi i vini di Michele. Si tratta di produzioni old style: niente pied de cuve, niente saccarosio e lieviti.

La base del rosso tenue è fatta dal vino rosato Sinespina: neretta cuneese, barbera, freisa, chatus, pelaverga.

Il bianco con la malvasia moscata

Il bianco Ca’ Melò è più complicato, favorevolmente più complicato: acidità, agrumi, torbide nuance di giovialità aromatica sono spinte verso il ciglio del lardo d’Muncalè (a mangiarlo ovviamente). E non mi stupisce affatto che possa piacere maggiormente a coloro che bazzicano da un po’ di tempo i terreni ispidi e pungenti dei rifermentati in bianco.

Così come non mi sbalordisce, in egual modo, che il rosato (rosso tenue? Chissà!) abbia maggiore successo commerciale: profumi, limpidezza post deposito, effervescenza croccante, un colore meravigliosamente festoso, recupera al palato fragole di bosco e ciliege color rosso tenue. Quale miglior alibi per copiosi antipasti, subito prima di gettarsi su di un barbera intorno ai 14,5°?

I vini bianchi? Meglio in bottiglie di vetro scuro

Olive-coloured wine bottle from about 1740s Di Frank Papenbroock Trasferito da de.wikipedia su Commons.(Testo originale: eigenes Bild ), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2044738

Il 16 maggio del corrente anno è stato validato e pubblicato uno studio1 di ampia rilevanza scientifica il cui intento era quello di indagare, utilizzando 1.052 bottiglie di 24 vini bianchi, le variazioni del volatiloma del vino bianco in condizioni di conservazione tipiche dei supermercati.

Il testo è interamente reperibile qui: https://openpub.fmach.it/retrieve/07273b2d-5aac-482c-a596-fb358114db00/2022%20PNAS%20Mattivi.pdf

Lo scopo del lavoro è stato quello di studiare l’influenza dell’esposizione alla luce sulla volatilità del vino bianco nelle tipiche condizioni di stoccaggio supermercato e di monitorare i composti. Per ottenere risultati importanti e capienti, lo studio sperimentale si è strtturato sulla rirpoduzione di una stanza che imita le condizioni tipiche di un supermercato: temperatura controllata, luci artificiali accese 12 ore al giorno e una piccola quantità di luce naturale che entrava attraverso le tende; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate attraverso una gascromatografia completa, sono stati considerati essenziali ai fini dei risultati ottenuti.

Dopo soli 7 giorni di conservazione in bottiglie di vetro flint2, è stata registrata una drastica perdita di terpeni (dal 10 al 30%) e di norisoprenoidi3 (dal 30 al 70%), mentre le bottiglie di vetro colorato non hanno evidenziato un simile comportamento nemmeno dopo 50 giorni e l’oscurità ha preservato l’integrità aromatico fruttato e floreale del vino.

Già Dozon e Noble4 avevano descritto i cambiamenti sensoriali causati dall’irraggiamento luminoso nei vini bianchi fermi e spumanti, menzionando la perdita dell’aroma di agrumi e un aumento del difetto di luce già dopo poche ore. Mattivi et al. avevano ottenuto risultati simili nel loro studio basato su 85 vini bianchi (ad esempio, Chardonnay, Pinot grigio), che avevano dimostrato il ruolo importante della riboflavina: “Il Gusto di Luce (Goût de Lumière) è una alterazione aromatica che si evidenzia in alcuni vini bianchi e rosati a seguito della non correttaa conservazione delle bo glie di vino, esposte a sorgenti luminose. E’ stato descritto per la prima volta nel 1981 da Emmanuelle Charpentier e Alain Maujean dell’Università di Reims, che avevano che avevano riscontrato deviazioni aromatiche in vini Champagne. Il difettoo appare soparttuttoin vini imbottigliati in vetro chiaro e si manifesta con una variazione del colore e con un’alterazione aromatica più o meno marcata. Il vino inizialmente risulta fortemente impoverito delle note fruttate e floreali e, successivamente, si arriva alla comparsa di odori sgradevoli di gomma, cipolla, aglio, cavolo cotto e uovo fradicio5”.

In conclusione, una diminuzione così sostanziale di terpeni e di norisoprenoidi ha enormi conseguenze per la qualità, la tipicità e l’identità dei vini bianchi neutri o poco aromatici in un periodo estremamente breve. La diminuzione, in primo luogo, dà origine a un prodotto meno aromatico e, in secondo luogo, lascia il vino spoglio di metaboliti. Pertanto, le bottiglie di vetro flint danneggiano la qualità del vino in due modi: direttamente, diminuendo le caratteristiche organolettiche positive e, indirettamente, esaltando quelle negative.

1 Silvia Carlina, Fulvio Mattivia, Victoria Durantinia , Stefano Dalledonnea, and Panagiotis Arapitsasa, Department of Food Quality and Nutrition, Research and Innovation Centre, Fondazione Edmund Mach, 38098 San Michele all’Adige (TN), Italy; Department of Cellular, Computational and Integrative Biology, University of Trento, 38123 Povo Trento (TN), Italy; and Department of Wine, Vine and Beverage Sciences, School of Food Science, University of West Attica, Egaleo, 12243 Athens, GreeceL

2 Flint glass, also called Crystal, or Lead Crystal, heavy and durable glass characterized by its brilliance, clarity, and highly refractive quality. Cfr. https://www.britannica.com/technology/flint-glass

3 I Norisoprenoidi scaturiscono dall’azione della luce e degli enzimi ossidasici (polifenolassidasi e lipossigenasi) sui carotenoidi (molecole di pigmenti organici a 35/40 atomi di carbonio), contenuti nella buccia dell’uva, trasformando questi ultimi in frammenti molecolari più piccoli, quindi maggiormente solubili, volatili, e soprattutto odorosi. Si ha formazione di composti ossigenati (chetoni) in posizione 7, dando origine al gruppo del damascone (aromi floreali, frutta tropicale, mela cotta), in posizione 9 dando origine al gruppo dello ionone (aroma di violettaPer ottenere risultati robusti e ampi, lo studio sperimentale è stato basato sull’uso di una stanza che imita le condizioni tipiche di un condizioni tipiche di un supermercato; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate, attraverso una gascromatografia completa, è stato ritenuto essenziale.). Frammenti a Per ottenere risultati robusti e ampi, lo studio sperimentale è stato basato sull’uso di una stanza che imita le condizioni tipiche di un condizioni tipiche di un supermercato; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate, attraverso una gascromatografia completa, è stato ritenuto essenziale.13 atomi di carbonio ossigenati in posizioni diverse danno al vino note di thè o tabacco. La trasformazione di questi ultimi in ambiente ridotto porta alla formazione di 1,1,6-trimetil-1,2-diidro naftalene(abbreviato TDN), spesso non ricercato per il suo odore di kerosene, ma che tuttavia, risulta Per ottenere risultati robusti e ampi, lo studio sperimentale è stato basato sull’uso di una stanza che imita le condizioni tipiche di un condizioni tipiche di un supermercato; l’utilizzo di un gran numero di bottiglie di di vini diversi, in modo da fornire un’elevata diversità biologica, e un metodo di metodo di fingerprinting in grado di massimizzare il numero di volatili rilevate, attraverso una gascromatografia completa, è stato ritenuto essenziale.essere importantissimo fattore nello sviluppo dell’aroma terziario del Riesling Renano, al quale conferisce la caratteristica e distintiva nota di petrolio bianco. https://ilnasodelvino.com/?cultura=le-sostanze-odorose-dei-vini

4 Cfr. N. M. Dozon, A. C. Noble, Sensory study of the effect of fluorescent light on a sparkling wine and its base wine. Am. J. Enol. Vitic. 40, 265–271 (1989)

5 https://laffort.com/wp-content/uploads/Laffort-Info/Laffort_info_123_Gusto_Luce-1.pdf