Corniglia (frazione di Vernazza) Di chensiyuan – chensiyuan, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20103433
Per Gallesio, nella ‘Pomona Italiana[1]’, facendo riferimento al Boccaccio e alla sua famosa Vernaccia di Corniglia, la Vernaccia corrisponderebbe al vitigno Vermentino: «L’abate che, come savio, aveva l’altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì e pensossi di volerlo guerire senza bagno: e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina, e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo; e sì disse all’abate: ‘Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi.’ (DECIMA GIORNATA – Novella 2)».
Gallesio, per esclusione nominale, sottolinea la differenza tra Vermentino e Rossese (Razzese che non ha alcuna parentela con il Rossese di Dolceacqua), uve a bacca bianca e propone un’ulteriore comparazione, arrivando a sostenere che dal momento che nelle Cinque Terre il nome Vernaccia è sostanzialmente sconosciuto, mentre l’attribuzione nominale del genovesato a quel tipo di uva è il Vermentino e siccome nelle Cinque Terre il Piccabon è un vitigno che viene usato per il per il vino prezioso (passito), arriva a concludere che il Piccabon moderno sarebbe la Vernaccia degli antichi. Gallesio insomma stabilisce, in maniera erronea, la sostanziale identità tra Vermentino, Vernaccia e Piccabon.
Girolamo Guidoni[2], al contrario, definisce l’identità sostanziale tra Rossese o Razzese e la Vernaccia, mentre pur concordando sull’uso del Piccabon nelle produzione del Vino amabile, sostiene che esso corrisponda al Sauvignon dei francesi o all’uva detta sapajola. Alcuni anni prima, nel 1806, viene ristampato un classico delle viticoltura seicentesca, ad opera di Giovanvettorio Soderini, il quale afferma, così come farà più tardi Guidoni, l’equivalenza tra il vitigno Rossese (chiamato Razzese) e la Vernaccia, nome quest’ultimo di derivazione toponimica legata al paese di Vernazza: «Quelli che nella Riviera della Spezie fanno il razzese e l’amabile, fanno 1’uno e l’altro d’un vitigno medesimo, perciocché volendo far 1′amabile, quando l’uva matura storcono il picciuolo a dove egli sta attaccato alle Viti, a tutti i grappoli, avendogli spampanati bene, che il Sole vi batta sopra fasciandogli cosi per quindici giorni, dipoi gli colgono a far l’amabile. E volendo fare il razzese, quando è pur matura, la spiccano dalle Viti senz’altro, e così si può fare a chiunque tu vogli vitigno per are il vin dolce senz’altra manifattura. Ma per fare il vino ballabile e buono, così di poggio come di piano, ella si dee condurre poco più che mediocremente matura, gettando via con avvertenza i grani marci e guasti , la tempestata, la secca, l’agrestina, le foglie che talora s’intricano fra gli acini, e ogni altra bruttura o schifezza si dee levar via, che sebbene il vino bollendo ha forza di purgare e levare in capo ogni cosa, è tanto atto a imprimere in se stesso e incorporare le male qualità, che ogni tristo seto e corrotto gli nuoce. Accanto a questo si deonotrascerre e metter disperse i vitigni che fanno diverse sorti d’uve, e di questa maniera s’aranno i vini differenziati, e si conoscerà distintamente la diversa qualità loro. E ancora segno della loro compiuta maturità, quando il granello di dentro ha mutato colore; alla bianca giallo, alla rossa rosso, alla nera nero, e similmente quando l’uva bianca pende in giallo, la negra negrissimo, e la rossa rossissimo, e la verderognola verde, e che tutte sien dolcigne al sapore, danno segnale appresso di stagionata maturità[3].»
Anche in un testo di Giovanni Sforza, introduzione al libro «Ennio Quirino Visconti e la sua famiglia», in ‘Atti della Società Ligure di Storia Patria’ del 1923[4], l’autore menziona lo Statuto della Gabella[5] di Sarzana, alle rubriche 12 e 13, in cui si ricordano i preziosissimi vini di Vernazza che gli abitanti chiamano “Vernaccie” e, altrimenti, “Rocesi”. Nello Statuto della Gabella delle Vicarie lucchesi dell’anno 1372, quando la città di massa appartiene al territorio di Lucca, invece si parla del ‘vini vernaccie’ e del dazio di entrata e di uscita pari a dieci lire, mentre lo stesso statuto, a margine e d’altra mano viene scritto ‘excepto vino razese, de quo solvatur ut de vino corso.’
Da ciò si può desumere che il vino razese fosse uno dei vini vernaccie, ovvero provenienti da Vernazza e che quindi indicasse un vino piuttosto che un vitigno e che solamente più tardi sia stata creata una sostanziale interscambiabilità dei nomi per indicare lo stesso vitigno e lo stesso vino.
[1] La Pomona Italiana, di Giorgio Gallesio (Finalborgo, 1772 – Firenze, 1839) è la prima e più importante raccolta di immagini e descrizioni di frutta e alberi fruttiferi realizzata in Italia.
L’opera, pubblicata in fascicoli tra il 1817 e il 1839, oggi è conservata in pochi esemplari completi, ed è qui riproposta in formato elettronico e ipertestuale liberamente consultabile: http://www.pomonaitaliana.it/
[2] Girolamo Guidoni, Memoria sulla vite ed i vini della Cinque Terre, in ‘Nuovo Giornale de’ Letterati’, Sebastiano Nistri, Pisa 1823, pp. 278 – 303
[3] Giovanvettorio Soderini, Gentiluomo Fiorentino, Trattato della coltivazione delle viti e del frutto che se può cavare, Dalla Società Tipografica De’ Classici Italiani, contrada di s. Margherita N.° 1118, Milano 1806, pp. 141 – 143. Il testo originale viene stampato a Firenze nel 1600 da Filippo Giunti Nasce in una famiglia che aveva dato un “gonfaloniere a vita” alla repubblica, Pier Soderini, e un cardinale alla Chiesa. Viene mandato a studiare all’Università di Bologna, dove studia filosofia e diritto. Al ritorno in Toscana si schiera senza riserve contro i Medici e viene coinvolto in un complotto che ha come scopo di togliere loro il potere. Condannato dal Consiglio degli Otto alla morte per decapitazione, viene salvato grazie alla generosità di Ferdinando I de’ Medici, che lo fa esiliare a vita a Cedri, presso Volterra. Soderini attenua la noia dell’esilio studiando l’agricoltura e scrivendo su questa scienza opere notevoli.
[4] In A.A.V.V., Vini e vigneti della Cinque Terre, a cura di Faggioni P.E., Stringa ed., Genova 1983. pp. 161 – 173
[5] Databile intorno al 1331 Fonte: http://www.comune.sarzana.sp.it/Citta/Cultura/Storia/Archivio_Storico/Default.htm