DÁ-ME MAIS VINHO, PORQUE A VIDA È NADA. (La variabile unicità dell’eteronimo). Di Emanuele Giannone e Alice Aliceinwonderland

“(…)Tante cose che, senza esistere,
esistono, esistono a lungo,
e lungamente sono nostre, sono noi …
Sul verde cupo dell’ampio fiume
I circonflessi bianchi dei gabbiani …
Sull’anima l’aleggiare inutile
Di ciò che non fu, né può essere, e è tutto.

Dammi più vino, perché niente è la vita.”

(…)Há tanta cousa que, sem existir,
Existe, existe demoradamente,
E demoradamente é nossa e nós…
Por sobre o verde turvo do amplo rio
Os circunflexos brancos das gaivotas…
Por sobre a alma o adejar inútil
Do que não foi, nem pôde ser, e é tudo.

Dá-me mais vinho, porque a vida é nada.

(Fernando Pessoa)

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Trattando di Porto si poteva anche sottotitolare e pluribus unum, ma i latinismi sono una frusta fissazione mentre o lema a variable unicidade do eterònimo é muito mais eficiente e no desvia do caminho.

Ci si può arrivare per varie vie. Quella senza dubbio più affascinante e romantica è la Calçada da Gloria, 265 mt di pendenza piuttosto percettibile, che unisce Praça dos Restauradores al miradouro de San Pedro de Alcântara, porta del Bairro Alto. Il capolinea dell’Elevador da Gloria potrebbe, a dar seguito alla fantasia, esser stato collocato proprio lì appositamente, secondo un disegno di mappe e cacce al tesoro sconosciuto eppure presente, così, nell’aria. “Lì” vuol dire dall’altra parte della strada. Entrare in un palazzo come-ce-ne-sono-tanti-altri, percorrere i cinque passi dell’atrio e spingere la porta di vetro. Del Solar do Vinho do Porto, succursale lisboeta delle cantine del nord.

Da noi, simili ingressi di rappresentanza sono riservati ad agenzie governative di nessuna utilità, municipalizzate di fantasia e dedite al dragaggio delle clientele, studi legali di rango e gabinetti di chiromanzia. Non manca neanche la targa d’ottone. Così, al finire dell’erta, la titubanza di qualche istante davanti all’ingresso non deriva da riverenza, bensì da acquisita idiosincrasia per l’orpello burocratico-legale.

Le prime due cose che colpiscono sono la moquette verde, lisa e macchiata, che profuma di tanta storia vera. E poi il silenzio, quasi da luogo di culto, interrotto ogni tanto dall’alto vociare dei camerieri, seri, compiti, di un’eleganza un po’, molto, retrò, che ha il sapore anch’essa di tanta storia vera, esattamente come la moquette verde lisa e macchiata. Le pareti ricoperte di specchi e di bottiglie di Porto e le poltroncine in stile biedermeier color crema concorrono alla creazione di un’atmosfera di netta separazione tra il dentro e il fuori, di sobrietà, dignità ed essenzialità, che raccoglie e protegge un tesoro da non dimenticare e da non disperdere, da presentare, a chi lo desideri, nella sua nuda bellezza. E’ bello che sia così, un posto vero, senza costruzioni, senza alterigia o presunzione, senza velleità modaiole, un po’ magico per questo, per il suo essere un po’ imbambolato e trasognato, lento e concentrato sulla propria ispirazione: il Porto. Si dice che le ultime parole di un lisboeta illustre, che al miradouro si sarà probabilmente fermato tante volte, siano state: “Datemi gli occhiali”. Dateci, dunque, gli occhiali, ché volentieri ci immergiamo e ci perdiamo e nuotiamo fra le pagine di questa carta, fra i millesimi e i colori e le forme, e le voci lontane dal porto e poi la musica e i versi.

Sdegnano gli ausili optometrici, evidentemente, gli avventori presuntuosi che non sanno spogliarsi dei paramenti turistici e pretendono di dettare tempi e movimenti. Così, il Trippa-Advisor di turno avrà raccolto il commento sdegnato dello sciame teutonico che, sopraggiunto a noi, aveva prima infranto la regola della moderazione acustica, quindi fruito in massa dei servizi igienici e infine, con zelo da governatori di banca centrale, tentato di rigovernare le Räumlichkeiten[1] secondo diversa e più congeniale organizzazione dello spazio: infrangendo così l’unica regola di questa casa-non-comune, eppure così diversamente europea, sul divieto di rimuovere le pesanti poltrone dalla collocazione originale e ridisporle nach eigenem Gutdünken[2]. Seguivano sdegnata sollevazione e ferma, ancorché affatto pacifica, azione repressiva dei Guardiães do Ordem Livre, da Lentidão e da Quietude do Vinho do Porto: le sedute non si sarebbero mosse da dove stavano. Anche a costo di sloggiare gli imbucati in compagnia delle loro velleità cosmetiche. Fermo immagine su fermissimo grugno bruno-baffuto cinquantenne lusitano contro sdegnosissimo grugno turistico-trentenne. Biondo. Caucasico-banausico. Seguiva ritirata strategica del secondo con tutta la sua banda, condita d’improperi, lamentazioni e minacce trip-advisory. Non un cenno di soddisfazione da parte dei Guardiães: solo il rituale rigoverno del tavolo malamente occupato. Intanto, iniziava il servizio del vino. E la raccolta disordinata di appunti.

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PORTO BRANCO:

Seco Quinta do Infantado. Fiori, terra, pietra, sale, regina claudia, giuggiola e mieli.

Rozes: fegato alla veneziana, mare, fico d’India e avocado.

PORTO ROSÉ:

Quevedo: assomiglia a un nerello mascalese in blend con meczan[3], pesante e accucciato, senza slancio.

PORTO RUBY:

Quinta do Estanho: after eight con boero, radici, ciliegia candita e oliva. Dolcezza lavata via dal sale, resta il calore alcolico. Bella la trama tannica sottile, piccola e puntuta.

COLHEITAS:

Dalva 1963 Branco: serio, austero e concentrato. Concentrato ma leggero, nonostante lo zucchero. Lento e sottile nell’espressione olfattiva, sottile mallo, fiori passi, fico essiccato, semi di finocchio. Un eat me – drink me favolistico ma esperibile nella (sempre relativa, sempre multipiano) realtà. Bocca ossidativa elegante, nodosa, scarnita. Veste la sua passionalità di finta alterigia. In durata tira fuori erbe amare e grasse, acetosella e alghe. In progressione e durata è sempre più verde e salato.

Dalva 1975 Tawny: amarezze e boschi, infusi amari, caramello, radici di liquirizia, decotti di cicoria e malva. Bocca ossidativa elegante, nitida, carnosa. In progressione sempre più fico e iodio.

Dalva Branco 1971: Vino molto, molto arancio. Albicocca disidratata al naso, polpa di pesca in bocca. Più gioviale e caldo, forse un po’ invadente, laddove il primo era più fresco o, addirittura, intimamente freddo. Dattero, torroncino, frutta da guscio. Prestanza alcolica e materica. Noci, alcol emergente, molto meno acido/fresco e più verdiano. Grosso, caldo, dolce.

Dalva 1995 Tawny: marroni, torta al rabarbaro, grande profondità, nettezza e finezza della parte ossidativa, che arriva in differita. Inchiostro di seppia, alga secca, semi di finocchio, fumoir, vecchie carte da parati, magazzini di stoffe e mobilio antico.

Dalva Tawny 30 Años: un alcool più ubriaco. Vino carnoso, pieno di curve, tizianesco. Tanta voluttà circoscritta in una cornice. Astringenza da rizoma di liquirizia e radice amara. Mallo e genziana in infuso alcolico, dolcezza da zucchero sapientemente aggiunto. Tonico. Freschezza dilavante e lunga coda salina con scia minerale bianca a chiudere. Vino di abbondanza: apre largo, tale resta. Cremosa cremagliera, calda e callida.

Dalva Tawny 40 Años: la freccia di Guglielmo Tell. Naso amaro, aspro, pungente, di dolcezza solo mimetica. Istantanea e subalterna a sale e freschezza/amarezza. Vino di eleganza. Apre aspro e così si ripropone. Asper et aster.

Porto Branco 10 Años Quinta Santa Eufemia: sardella, fiore – mare, molto fumo ma non acre, caramella al miele, acqua di fiori blu, colonia cypher e genziana Borsari. Un profluvio: propoli, anice e menta, timo, mint juleps, sale, cerfoglio, miele d’erica, tabacco dolce. E poi  Quel mazzolin di fiori. Aperto, morbido. Finale da vermut e soda.

Porto Branco 10 Años Vista Alegre: mallo, zenzero candito, fico secco, bocca molto leggera dopo un ingresso dolce e caldo. Gestione sottrattiva dello sviluppo, mimetico e molto misurato.

Porto Branco 20 Años Vista Alegre: caramella d’orzo, semi di finocchio, anice, sedano, cioccolata dei trappisti, incenso e asperges, carciofo, edera, fico essiccato. Bocca elegante, dosata, progressiva e fine nel soffio ossidativo finale.

Dalva Tawny Colheita 1967: da perdersi. Dolci da forno, meringa, lucido da scarpe, zuppa inglese, pasta sfoglia, cumino, torba, pane di spezie, corteccia, catrame, rovere, vernice, china. Bocca molto dolce, poi tabacco Sobranie, pelle, noce e fogliame. E’ dolce-amaro, di radici e miele, di vinile e tempera: il vino del pittore: o vinho do pintor. Lattice e caucciù.

Dalva 1963 Branco (secondo assaggio): è il vino-sigaro, siamo d’accordo. Ma uno lo sente dolce, l’altra lo sente deciso. Ma la vera sorpresa che accorda il disaccordo è che questo vino, in lunghezza, verdeggia di verbena, di edera, di noce e nocciola acerbe. E lascia con biscotti al marzapane, acqua di colonia e babà.

[1] I locali

[2] A proprio piacimento.

[3] Un pluripremiato tra i Pinot Nero della cantina J. Hofstätter.

 

2 risposte a "DÁ-ME MAIS VINHO, PORQUE A VIDA È NADA. (La variabile unicità dell’eteronimo). Di Emanuele Giannone e Alice Aliceinwonderland"

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