My grandfather, the Dolcetto wine, the “Merica”

Image from the historical-photographic archive of the Regional Museum of Emigration – Piedmont in the World

At the beginning of the twentieth century the entire Fariglianese (Farigliano is a small town “at the foot” of the Langhe) family of my grandfather emigrated to the United States, to Oakland, California, to try to have a better existence. The father left my infant grandfather (Giovanni Ballauri, dubbed Bastianin, 3 years old in 1905) to his sister, aunt Teresa, “Ginota’s teacher” for the villagers, with the promise that, once settled, they would return to take him. They brought with them the youngest sister still breast-fed.

Many, all over Italy, did it, because life was really bad and in Piedmont no less than in other parts: “My mother as a child went to serve in the countryside as a vachera (herdsgirl), in the parts of San Magno, among people who did well. One morning, while she was going to pasture, and while she was eating a piece of hard bread, she met a man who told her: “Cul pan lì ai tu fa grignà a mangialu e ai tu fa piurà a cagalu. Dailu a la vaca, mi ‘t ne dugn ‘n toc del mé [That bread there hurts you to eat it and makes you cry to shit it. Give it to the cow, I give you a piece of mine]”. My mother had to choose every evening whether to work again or skip the dinner, the mistress said to her: “L’has pì car ’ndà a cugiate o desnò mangié sina e filé ’n füs? You prefer to go to bed, or otherwise eat dinner and spin a spindle? If she worked until midnight to spin the hemp she was due to ‘n tüpinet of soup, otherwise nothing [1]”.

Between 1900 and 1914. In those years 3,035,308 Italians arrived in the United States, which means more than 200,000 expatriates from Italy, on average, every year. A large number of Piedmont farmers and workers emigrated to California for different reasons and not always collimating: a portion of emigrants had been summoned as skilled agricultural workers following the first wine-growing settlements (1881 year of the founding of the Italian Swiss Colony) in the Russian River valley north of San Francisco, as it was attracted to Guasti, in the inner part of the territory of Los Angeles, by the Italian Vineyard Company. A second part, after reaching other North American states, turned to the Californian territory with the myth of the West and the search for gold. This was the case, for example, with other wine growers who are now world famous, such as the Gallo. Stories of emigration and entrepreneurship that were built both through the revival of some founding myths (nationalism, conquest of new frontiers …), and from strong ethnic ties according to racial clichés very alive in the American territory.

The common origin became a fundamental factor in guaranteeing the inflow of capital, by banks and private subjects necessary for the development of the Piedmontese wine business in California. Much of the historiography supports the successful emigration of Piedmontese viticulturists to California had as its cornerstone the Pavesian myth of “I’m at home!”The “Moon and the Bonfires”, inspired by the protagonist of the show, on the subject of the similarity of the Californian hills and the Langhe of Piedmont. Secondly, a large part of the literature has considered the transfer of agricultural and viticultural skills, particularly from the old continent to the new, as the natural outcome of sure entrepreneurial success. On the contrary, deeper historical investigations show how much and how human intervention, at the cost of unimaginable efforts and exploitation, iron will and the above mentioned community economies have been the necessary presuppositions for the cultural and landscape transformations that slowly lead us to the places of wine of the Californian present [2].

My grandfather’s parents Gianni never came back to pick him up: his father wrote several letters to his sister Teresa to have him boarded for the “Merica”. But he nothing: he was well there, in Farigliano, with his aunt.

They also had some land on, in the hamlet of Cornole, “a vineyard that climbs the back of a hill until it goes into the sky [3]”, as a sweet. Master Teresa sold the vineyard, in the early seventies, to her sharecropper Giacomo Gillardi, so that he could continue, in other hands, the history of the vineyard and the family. Since then, the vineyard has been called “Maestra Vineyard” and Dolcetto wine has been produced on its own since 1982 thanks to the new family oenologist Giacolino Gillardi, “Maestra”, and now Dogliani “Maestra”.

[1] Il più povero di Peveragno è più ricco del ricco di allora – Caterina Toselli, vedova Tassone, detta Nuia, nata a Peveragno, classe 1890 – Da Il mondo dei vinti, Einaudi, ed. 1977, 1997, p. 32 in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/percorsi/percorsi_50.html

[2] Cfr. Simone Cinotto, Terra soffice uva nera. Vitivinicoltori piemontesi in California prima e dopo il Proibizionismo, Otto, Torino 2008

[3] Cesare Pavese, Feria d’agosto, Einaudi, Torino 1946

Un’altra storia: la prima Cantina Sociale dell’Oltrepò Pavese.

Una serata così… Il circolo Arci “Zenzero” di Genova mi invita a presentare il libro in una uggiosa serata di gennaio, di mercoledì, alle 18.30.  Poche persone si seggono davanti al tavolo preparato per l’occasione. L’età media supera gli anta abbondantemente. Tutte donne estremamente interessate all’argomento: un piacere chiacchierare con loro. Alla fine, tra un bicchiere di vino e una pezzo di focaccia, mi avvicina una di loro e racconta che un suo parente (lo zio, fratello di suo padre Giovanni) fu il fondatore di una delle prime cantine sociali sorte in Italia e la prima nata con successo nell’Oltrepò Pavese: quella di Montù Beccaria. Qualche tempo dopo Aurora Montemartini chiama al telefono invitandomi ad andare a casa sua perché mi vuole dare un libro[1] che racconta di Luigi Montemartini e della fondazione della cantina sociale. Questo breve racconto lo dedico a lei e a quella storia. 

La Cantina Sociale di Montù Beccaria. Agli inizi del ‘900. Un secolo fa. I socialisti, da poco partito, sono lacerarti al loro interno: diverse tendenze, che andranno ad approfondirsi nel corso degli anni a seguire, parlano lingue tra loro inconciliabili. I “sindacalisti”, i rivoluzionari per lo sciopero insurrezionale da una parte e i riformisti, gli attendisti, i gradualisti e gli istituzionali dall’altra. Furono proprio questi ultimi ad occuparsi della produzione agricola e vitivinicola in forma associata come mezzo di superamento della piccola proprietà capitalistica individuale e mezzadrile. La storia che voglio qui ricordare si svolge in quella terra che va sotto il nome di Oltrepò Pavese e parte da un piccolo paesino chiamato Montù Beccaria. Il protagonista della storia è Luigi Montemartini, deputato socialista del collegio di Stradella, coadiuvato dal fratello Giovanni. Dopo due tentativi fallimentari operati dal professor Amilcare Fracchia e da alcuni proprietari vicini al partito socialista di costruire una Cantina Sociale a Stradella, i due fratelli Monetmartini studiano esempi di cantine sociali realizzate con successo, tra le quali si annovera l’esperienza statunitense della  “California Winemakers Corporation[2]”. Luigi Montemartini inizia la propaganda per la costituzione della Cantina sociale nell’ottobre del 1901: la fase di raccolta delle adesioni si conclude nell’estate del 1902 dove 58 soci si riuniscono in assemblea e redigono lo statuto e il regolamento della nuova cantina collettiva. La somma sottoscritta è sufficiente all’acquisto di un terreno dove sorgerà, a fine dell’estate del 1902, grazie al contributo progettuale di Angelo Omodeo, lo stabilimento ad uso cantina.

La prima vera discussione: come classificare le uve e quanto pagarle. Dopo una lunga discussione tra soci, avvenuta il giorno di ferragosto del 1902, viene dato l’incarico ad una commissione formata da 33 esperti di valutare la natura dei terreni e la qualità delle uve che ivi trovano dimora. Il criterio comunemente accettato è quello dell’esame glucometrico del mosto dopo la pigiatura e, sulla base delle variazioni possibili di quest’ultimo, seguono le diversificazioni relative al prezzo: a parità di contenuto glucosico ogni tipologia d’uva superiore viene pagata, rispetto a quella inferiore, una lira in più al quintale. Dal basso verso l’alto, le uve vengono così classificate: nostrana, bastarda, basdarda-fina, finissima. La cantina si dota anche, su proposta di Luigi Montemartini, di un Direttore enologo chiamato a dirigere le operazioni di cantina e a predisporre l’acquisto di nuove macchine. La scelta ricade sul giovane enotecnico Luigi Baraldi. Lo Statuto sociale manoscritto del 27 gennaio 1907 precisa alcune condizioni associative. Ogni vignaiolo, per potersi associare, deve pagare un corrispettivo corrispondente ai quintali d’uva che vuole conferire alla cantina, che per i soci fondatori equivale ad una lira per quintale. Il massimo di uva consegnabile per ciascun socio è di 40 quintali, derogabili a detta insindacabile del Consiglio di amministrazione nel caso in cui le uve provengano, in quantità superiore, dal medesimo vigneto. Le uve devono provenire da terreni o parte di essi posizionati nel comune di Montù Beccaria indicati al momento dell’ammissione in qualità di socio. Sono conferibili le uve provenienti da altri terreni soltanto nel caso in cui vi siano stati dei danni a quelle dei fondi designati. Durante la vendemmia, che avviene nei giorni designati dal Direttore della cantina, i soci godono di un acconto sulle uve che forniranno a venire. Infine, i ricavi provenienti dalla vendita del vino vengono suddivisi in tre parti: la prima per l’ammortamento degli impianti, per il pagamento degli interessi e per un piccolo fondo di riserva. Una seconda parte per liquidare le operazioni di credito. E la terza viene divisa equamente tra i soci sulla base della quantità di uve consegnate. Il 26 settembre del 1902, terminata la vendemmia, le uve vengono portate in canina dove due grandi pigiatrici-sgranatrici a vapore iniziano a diraspare oltre 4000 quintali d’uva per una produzione iniziale di 2307 ettolitri di vino da “pasto”, 606 da “pasto scelto” con l’impiego di 22-23 maestranze. La cantina si dota anche di un torchio elettrico, di uno idraulico e di due pompe per la conduzione e il travaso del vino. Tra i primi acquirenti  del vino della cantina sociale di Montù Beccaria viene annoverato l’Ospedale di Cremona per un totale di 500 ettolitri. Nel 1908 il Ministero dell’Agricoltura dona alla cantina 8 botti da 50 ettolitri. Nel 1910 gli associati salgono a 435 e l’uva consegnata aumenta sino ad arrivare a 11.700 quintali nel 1913[3].

Accenni sull’ampelografia dell’Oltrepò Pavese.

Pre-fillossera. Secondo l’indagine pre-fillosserica svolta da Osvaldo Failla i territori maggiormente vitati e con una solida tradizione viticola sono quelli orientali: Broni, Stradella, Montù Beccaria e Santa Giulietta. Le uve maggiormente coltivate sono la Moradella, la Croatina e l’Ughetta (Uvetta ovvero la Vespolina). Nella regione centrale dell’Oltrepò, nei territori di Montalto Pavese e Casteggio, si fa sentire l’influsso del vicino Piemonte, da cui i vitigni maggiormente coltivati sono il Dolcetto e il Barbera. Poi il Vogherese dove prevalgono l’Ughetta, il Croà e il Vermiglio da una parte e Barbera, Dolcetto e Moretto dall’altra. Tra i bianchi il vitigno maggiormente coltivato è il Trebbiano seguito a debita distanza dalla Malvasia e dal Moscato. Poi il Trebbianino, il Cortese, la Verdea, il Mostrino, il Grè e l’Altrugo (indagine del 1884).

Il Pinot Nero. Il primi tentativi di introduzione del Pinot nero in terra piemontese risalgono al ventennio 1820 -1840, ma senza successo per l’inadattabilità del vitigno ai diversi terroir climatici del Piemonte. Fra gli anni 50 e 60 dell’Ottocento, soprattutto nel territorio del casalese alessandrino, grazie all’operato di Gancia, si tenta di introdurre nuovamente il Pinot per la spumantizzazione. Ancora una volta senza alcun successo. Vi è però un’area, confinante con quella alessandrina, in cui la coltivazione del Pinot ha un successo notevole: il Bollettino del Comizio Agrario di Voghera, redatto nel 1875, relativo all’escursione in Vallescuropasso, parla dello splendido vigneto coltivato esclusivamente a Pinot nero nell’azienda dei Giorgi Vimercati di Vistarino. Dopo la devastazione fillosserica, giunta alla fine degli anni Novanta dell’Ottocento, l’Oltrepò Pavese accentua la sua vocazione internazionale salvaguardando ben poco delle coltivazioni precedenti. A parte le storiche uve a bacca nera Barberba, Bonarda e Croatina, qualcosa di meno di Uva rara e Ughetta e l’insperato successo del Pinot Nero, il territorio pavese vede viepiù l’introduzione di vitigni internazionali: Pinot Grigio, Chardonnay, Riesling e Sauvignon Bianco[4]. Ma è già storia del presente.

l’immagine principale è tratta dal sito valversa.com

[1] Le notizie fondamentali di questo articolo sono tratte da: Alberto Magnani, Luigi Montemartini nella storia del riformismo italiano, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1990

[2] Cfr. Simone Cinotto, Terra soffice uva nera: vitivinicoltori piemontesi in California prima e dopo il proibizionismo, Torino, Otto, 2007

[3] Luciano Maffi, Storia di un territorio rurale. Vigne e vini nell’Oltrepò Pavese. Ambiente, società, economia, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 123, 124

[4] Cfr. Luciano Maffi, Natura docens. I vignaioli e sviluppo economico dell’Oltrepò Pavese nel XIX secolo, Franco Angeli, Milano 2013; Luciano Maffi, Storia di un territorio rurale. Cit.