
“Se qualcuno risponde ‘mi sembra che sia proprio nulla’, questa sua stessa risposta, che ritiene negativa, lo costringe ad ammettere che il nulla è qualcosa, allorché dice ‘mi sembra che sia nulla’”. Così scrisse Fredegiso di Tours, discepolo di Alcuino a York, poi abate a Tours, e infine cancelliere di Ludovico il Pio. Autore del trattato in forma epistolare De nihilo et tenebris, sostenne la positiva realtà del nulla e delle tenebre dalle quali Dio creò il mondo: nihil aliquid significat. Ma non potremmo allo tesso modo riferirci al canto XI dell’Odissea, quando, stando al racconto del Ciclope, alla domanda “Polifemo, chi ti reca danno?” egli rispose “Nessuno”? Il maggiore chiarimento arriva senza alcun dubbio da Hegel, il quale asserì che la metafisica posteriore al pensiero classico rigettò la proposizione che dal nulla venisse il nulla, così come sostenevano i filosofi greci, Parmenide in testa: De nihilo nihilum, in nihilum nil posse reverti – “nulla si crea – nulla si distrugge”. Al contrario, la tradizione cristiana affermò che “anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l’essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce… Così perfino in Dio la qualità, cioè l’attività, la creazione, la potenza ecc., contiene la determinazione del negativo”.
Ora, qual è il punto, a voler entrare nel dettaglio? Fausto Cellario mi versò, ma oramai non ricordo se me lo versò oppure me ne parlò soltanto oppure ancora se mi disse che aveva intenzione di produrlo, un vino la cui etichetta recava questa dicitura: “il vino che non c’è”. Capirete bene lo stupore soprattutto per il fatto che, non so quanto consapevolmente, Fausto sia arrivato a produrre una bizzarria linguistica e matematica che non nulla da invidiare alle discussioni filosofiche che si intrattengono da Aristotele in poi sul divieto assoluto delle divisioni per il numero zero, per arrivare alle teorie newtoniane dello zero e dell’infinito, in cui si afferma che 0 non è tanto un numero, quanto il primo principio, non numerico, del numero e per passare, tra l’altro, dai paradossi di De Morgan, il quale, rimanga tra di noi, oltre ad essere un grande matematico e letterato, era anche un insigne bevitore:
Whoe’er would search the starry sky,
Its secrets to divine, sir,
Should take his glass – I mean, should try
A glass or two of wine, sir!
True virtue lies in golden mean,
And man must wet his clay, sir,
Join these two maxims, and ’tis seen
He should drink his bottle a day, sir!
Old Archimedes, reverend sage!
By trump of fame renowned, sir,
Deep problems solved in every page,
And the sphere’s curved surface found, sir:
Himself he would have far outshone,
And borne a wider sway, sir!
Chiunque esplori il cielo stellato,
per carpirne i segreti, signore,
che prenda il suo bicchiere, dico,
provi un bicchiere o due di vino, signore!
Un’autentica virtù risiede nella sezione aurea,
e l’uomo deve bagnare la sua carcassa, signore,
unite queste due massime, e si vedrà
che dovrebbe bere la sua bottiglia al giorno, signore!
Il vecchio Archimede, venerabile saggio!
Dalle trombe della fama rinomato, signore,
difficili problemi risolse in ogni pagina,
e trovò la superficie curva della sfera, signore!
Egli stesso avrebbe ancor più brillato,
e avuto una maggiore influenza, signore,
se avesse conosciuto il nostro moderno segreto,
e bevuto una bottiglia al giorno, signore!
(….)
Dunque Fausto non mescé il vino dall’etichetta paradossale, che dapprima non guardai, e poi non annusai, non ingurgitai e infine non dissi, pensando di averlo bevuto: “Poffarbacco, mi piace molto questo vino che non c’è! Pensa tu, ciò nonostante – aggiungo- se il vino ci fosse!” il vino che non c’è non avrebbe dolcetto per l’80% e doux d’Henry per il restante 20%.
Rovasenda, nel suo prezioso “Saggio di Ampelografia Universale (1877)”, scrive: “doux d’Henry nera” Pinerolo; Incisa lo crede vitigno francese; lo crederei indigeno del Pinerolese”. Le leggende vogliono che taluni credano che si chiamasse anche “doun d’Henry”, cioè “dono d’Enrico” o “dolce (doux) d’Enrico”, in riferimento a Enrico IV di Borbone, detto Enrico il Grande, re di Francia che, valicando i monti e recandosi nella vicina Valsusa, pare si fosse portato in dono, per le popolazioni locali, il sunnominato vitigno. Nella seconda versione, Enrico IV, sempre passando da quelle parti, s’innamorò talmente del vino da conferirgli quel regale appellativo. Ma “nel “Bollettino Ampelografico”, in una relazione di Luigi Provana di Collegno su d’un’Esposizione ampelografica tenutasi in Pinerolo nel settembre 1881, si ricorda anche il “doux d’Henry”, proveniente da vari comuni fra Pinerolo, Bibiana, Perosa Argentina, Torre Pellice, Bricherasio, ecc., nonché Cumiana, donde sarebbe venuto sotto il nome di “Gros d’Henry”; però il Provana consiglia di abbandonare questa variante, non avendo ragion d’essere (non di rado si sono voluti distinguere 2 tipi di “doux d’Henry”: il “grosso” e il “piccolo”, in base alla differente grossezza del grappolo e specialmente degli acini; ma, come in tant’altri casi, trattasi di differenze dovute soprattutto all’ambiente: il “piccolo” lo si riscontra nelle località più elevate, quindi meno favorevoli, specialmente a Luserna S. Giovanni)” (Pecile M., Zavaglia C., Ciardi A., Doux d’Henry).
C’è una terza leggenda, non ancora scritta (insomma che non c’è), ma di cui vi do un’anticipazione, in cui pare che un vecchio barbuto di Torre Pellice, vagando per i calanchi di Clavesana, un giorno incontrò Fausto Cellario, il quale gli fece dono del suo dolcetto. Colpito da tale generosità, il vecchio barbuto, prima di congedarsi, regalò alcune piante del Doux d’Henry a Fausto che decise di allevarlo in un piccolo appezzamento di dolcetto e di farne unione di intenti, d’incontro e di vino. Così il dolcetto si profumò di viola e rosa passita, perse un po’ dell’aspetto burbero e si fece palpitante di una breve nota aromatica che lo addolcì.
Ah, se solo lo si potesse bere!