Il vino distopico

Philip K. Dick, The Man Who Japed, Ace Books, 1956
Di Ed Emshwiller – flickr, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83667555

Ero rannicchiato sul lato destro del mio divano sdrucito di velluto rosa; sul soffitto i fari al neon, balbettando, emanavano un tanfo orrendo di mosconi appena grigliati, mentre fuori ruggivano raffiche di vento dense di un pulviscolo giallastro esalate dagli starnuti di vapore radioattivo proveniente dall’ultima centrale nucleare in funzione. Il cataclisma geotermico si era portato via oltre l’80% dell’abitato terrestre e lontane esplosioni gassose frammiste a temporali di radiazioni ionizzanti non facevano ben sperare sui tempi futuri. La mia dispensa era piena di scatolette di tonno, di sarde e di sgombri affumicati che avevo raccattato, prima che alcune pantegane le aprissero con i loro denti aguzzi, nei bassifondi di un magazzino interrato e dimenticato dagli uomini e dagli dei.
Avevo con me anche alcune bottiglie di vino, sempre che così si potesse chiamare, fatto con uve di “noah” del 2071. Brillante, di un colore viola fosforescente, emanava un classico profumo di insaccati, aglio, solvente per smalto e candeggina. In bocca una piena corrispondenza di ortaggi putrefatti, pollo andato a male e prosciutto rancido.
Mi svegliai di soprassalto appena in tempo per vedere i titoli di coda dell’ultimo episodio della serie distopica che stavo guardando da circa sette stagioni; madido di sudore freddo, controllai che tutto fosse a posto: il vento aveva perso la sua carica corrosiva e il “noah” mostrava i suo archetti baldanzosi sul vetro del bicchiere. Avevano tratteggiato un teschio, o così mi pareva, ma imputai l’accaduto alla serie televisiva. Bevvi l’ultimo sorso di vino e andai a coricarmi felice quando lessi nell’etichetta che l’anno di produzione era stato il 2041. Mancavano ancora 30 anni alla fine del mondo.