Auferstanden aus Ruinen / Und der Zukunft zugewandt. Di Emanuele Giannone.

 

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“… qui il bere è in molti casi un arrancare e passare il tempo.

Un uccidere il tempo, ‘uccidersi dentro’ o lenire il dolore,

costretti nel fantasma in cui viviamo.

Ricordi e immobilità.

Sopravvivere.

Si beve troppo con gli occhi vuoti, con il niente addosso.

Soprattutto tra i ragazzi.

Certo, non per tutti è così…”

Matteo Castellani, Le Petit Clos

 

 Ai cultori della Ostalgie una precisazione preventiva: la scelta di versi e stendardo è ironica. E non me ne vogliano i perseguitati di Ulbricht e Honecker. Qui, alla maniera di Heine, Brecht, e Biermann, tre icone (la terza part-time) del fu-stato dei contadini e degli operai, si vuole rispondere alla vessazione con l’ironia. Proprio come hanno imparato a fare gli Aquilani. I primi versi dell’inno nazionale della Repubblica Democratica Tedesca, “Risorta dalle rovine / e rivolta al futuro”, si attagliano singolarmente, ma senza particolari voli di fantasia, alla città delle Novantanove Cannelle.

Rivolta al futuro. Quale?

Per fare i contanti c’è voluto poco: è bastato il fumus dell’emergenza. Per fare i conti è stato invece necessario far trascorrere almeno un paio di governi: politici boriosi e polittici gloriosi, i rendering di una città nuova e ideale, ovviamente di una noia mortale. Disanimata prima, poi rianimata a colpi di centri commerciali. E di alcol.

Se ju tarramutu[1] fu la Stunde Null, oggi sembrano passati pochi minuti: perché nel frattempo si è perso molto tempo e si è perso molto denaro. In questo tempo, ho sentito da molti, ha preso pure a girare molto più alcol di prima: gli Aquilani come gli Apalachee, storditi ed eradicati e confinati in riserve, le new towns e gli shopping malls. La pulizia etilica come variante della pulizia etnica. Che in parte non sia andata così, lo si deve ai benedetti cuccelòni[2], incaponitisi nel ruolo di sentinelle sopra le loro macerie. Più importanti loro, di sicuro, delle camionette verdi o blu stazionate da cinque anni scarsi ai Quattro Cantoni.

Cinque anni scarsi e sono poche le istituzioni funzionanti a ritmi pre-calamitosi: una, va da sé, è l’Agenzia delle Entrate. C’è vita, per fortuna, anche fuori dalle istituzioni e si manifesta per segnali da custodire come rare speranze: sono comparsi anche in centro gli agognati effluvi di calce, sono tornati gli eterni studenti strenuamente bigianti e limonanti al Parco del Sole, è tornata la musica al Ridotto. Ma ad esclusione di queste poche eccezioni la vita è altrove ed è ancora quella decentrata e decerebrata delle periferie. Fuori dal centro, è tutto un compra e un bevi che ti passa. Nella zona rossa siamo ancora ad alluvioni e pack dei mobili. Le Soprintendenze si mobilitano in ritardo per salvare gli archivi sepolti. Anche la rimozione delle macerie parte in ritardo, mentre quella della memoria – la prima, vera operazione approntata e tentata dai beccamorti di Stato – è partita subito e per fortuna ha trovato nei lupi di quassù una strenua resistenza. Vi sono, poi, segnali nuovi. Uno, più o meno istituzionale, è il Red Wine District: rosso, perché non è un mistero che da queste parti tiri di più.

La ricostruzione inizia finalmente a insinuarsi nel centro cittadino. A cominciare da Via Castello e dalla sua fuga di imbracature e ponteggi. Per chi entra da Porta Castello, il Red Wine District si manifesta all’angolo dove termina il parco. È nel percorso abituale di svago e svacco, tazza[3]e struscio, che è sempre stato tale e parte proprio qui, con la medesima prima stazione. Ora, seguendo la linea di ponteggi e cantieri di Via Castello, guidati dalla prospettiva delle gru dirimpetto al parco, quando una vetrina mostra le prime bottiglie potete contare due passi e bussare al portone. Siete al Boss. Rectius: ju Boss, tra tutti i possibili nomi del vino in città il più plausibile. Storica enoteca, storica mescita per generazioni di residenti e di studenti, primo locale a riaprire dopo il sisma. E a richiudere, e a riaprire ancora, nell’intermittenza imposta dalle ordinanze e dagli umori prefettizi. Con Pierluigi, uno di casa, mi aggiorno sullo stato delle cose e apprendo che tocca di nuovo a loro, ora che la ricostruzione impone una chiusura più lunga e probabilmente il reperimento di una sede provvisoria. Ma non è la chiusura forzata a causare le sue maggiori perplessità. Il Boss chiude all’ora nella quale il business del tasso alcolemico gli garantirebbe gli introiti più corposi. Disegna un limite nel nome della civiltà del bere, lo va ricalcando da quando la piazza e i vicoli contigui si sono impavesati delle insegne dei ready to drink, la categoria merceologica più in voga presso il tracannatore seriale, cioè il frequentatore serale medio di quest’angolo di città.

Riuscendo e svoltando stretto a sinistra, incanalati tra una parete vera e una di compensato – un topos, l’orto conchiuso del cantiere – siete in Piazza Regina Margherita: qui inizia l’osteria a cielo aperto della città federiciana. Qui ritrovi gli stessi, eterni studenti, bigianti e limonanti, ma in ora di sbornia. Chi cerca scampo dal binge drinking, oltre al Boss e dopo l’ora della sua chiusura trova Le Petit Clos, Matteo detto orso piegato e i suoi vini naturali. Il secondo rifugio per santi bevitori. Lui ha aperto da un paio d’anni e rischia, come il Boss, di chiudere causa lavori e senza sapere per quanto tempo. Riuscirà, si spera, a riaprire, anche perché Matteo è in affitto e il locatore parrebbe intenzionato a non pretendere il pagamento nei mesi di chiusura forzata.

La rimozione forzata e a tempo indeterminato di due luoghi di civiltà del bere passerà inosservata, forse, a chi è già avvezzo all’ebbrezza del breezer. Io parlo di civiltà sperando che la parola grossa valga a risvegliare un minimo d’attenzione proprio presso questi ebbri facili: non li invito certo all’astensione, li prego solo d’attendere ed esser curiosi. E di provare la differenza, quando ju Boss e il Petit Clos riapriranno, dove già sono o altrove, tra una bevuta e l’altra. E pensando a quest’altra, di chiedersi magari se è meglio incontrarsi qui, aggrappati a un vecchio bancone, o stretti tra tavoli e gomiti e decibel copiosi; oppure nella vitrea vastità e coll’acrilico sottofondo musicale del centro commerciale. Li prego di chiedersi se vale ancora la pena pensare a una new town, o se non sia meglio sognare di rientrare in un antico condominio a Via Marrelli. Il sentimento, volando un poco con la fantasia, è il medesimo. La differenza è tutta nell’attesa.

E adesso, musica.

PS – Non consiglio mai di bere a stomaco vuoto. Il vino, si sa, è ministro della tavola. Ebbene, sempre nel quartiere delle chiusure a intermittenza c’è Marzia Buzzanca con il suo Percorsi di Gusto, a Via Leosini. Andate sulla fiducia, fottendovene allegramente di recensioni, trippa-advisor & the like.

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Foto di Alessia Ganga

 

[1] Il terremoto, voce dialettale. Dà il nome a un film di Paolo Pisanelli, sul quale trovate informazioni qui:  http://www.jutarramutu.it/film/index.php

[2] Testardi, voce dialettale.

[3] Il bicchiere di vino, voce dialettale.