Letteratura enologica Veneta tra Sette e Ottocento

Cartina dello Stato Veneto del 1782

La letteratura in ambito vitivinicolo delle varie province venete, in tutto il corso del Settecento e dell’Ottocento, è molto abbondante, anche se ad essa corrisponde, ma è un dato caratteristico di gran parte d’Italia, una produzione vinicola insoddisfacente espressione di usi consuetudinari privi di una necessaria circolazione di formazione e soggetta ad un’arretratezza tecnologica di lungo influsso e durata. La provincia veronese annovera, tra i maggiori letterati dell’epoca, Scipione Maffei [1] che, nella sua monumentale opera ‘Verona Illustrata’, riporta, per primo, la famosa lettera di Cassiodoro sul vino ‘acinatico’: si paragona al il vin santo l’attuale Recioto. A lui si deve anche l’introduzione del termine amaro per i vini secchi, volto all’uso di invertire l’abitudine di servire a tavola vini dolci, pratica invalsa nella Verona dell’epoca. Nel 1770 è la volta del poemetto di Maurizio Gherardini, ‘La vendemmia dell’uva in Valpolicella’, in cui si rammenta la produzione del vino tramite la tecnica dell’appassimento delle uve. Nel 1778 l’abate Bartolomeo Lorenzi scrive la ‘Coltivazione dei monti’, un trattato in prosa e poesia sulla coltivazione della vite su esposizioni di declivio e sulle pratiche di cantina per ottenere vini superiori. A fine Settecento emergono gli scritti di Benedetto Del Bene, traduttore di testi latini, che propone, dal punto di vista enologico, un appassimento delle uve (di una settimana) a cui deve seguire una fermentazione molto lunga (di oltre sei mesi) e l’utilizzo di frequenti travasi vinari. Ma è agli inizi dell’Ottocento che compaiono due tra i testi più significativi in campo viticolo: la “Memoria” (1810) di Pietro Moro il quale, su sollecito di Filippo Re allora direttore degli Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia, scrive sull’agricoltura veronese e sulle cattive pratiche legate alla viticoltura ed alla produzione del vino. Dunque lo scritto di Ciro Pollini: le ‘Osservazioni agrarie’, iniziato nel 1818 e concluso nel 1832. Nelle sue “Osservazioni” il Pollini, oltre a trattare delle fermentazioni del mosto in vasi vinari chiusi, fa anche un elenco, corredato da breve descrizione,  delle varietà di uve rosse e bianche presenti nel veronese. Ecco alcuni esempi:

«Uve nere.

Vernazza Nero. Forse la Vernaccia nera dei Toscani, e Romagnoli. Tralci corti, mezzanamente grossi; foglie appena lobate; grappoli mediocri, a graspo rossetto; acini tondi, non affatto neri ma rossetti, né rari né folti, poco dolci. Coltivasi in Valle Pulicella, e altrove. È poco grata al palato, ma mista ad altre forma buon vino.
Vesentina o Vesentinon. Tralci grossi, corti foglie intagliate fino a metà coi lobi acuminati ossia aguzzi; racimoli grandi, coi graspi rossigni; acini ovati, piuttosto rari, a buccia dura, e di sapore aspro cattivo. È coltivata in Valle d’Illasi, e nelle prossime. Rende buona raccolta e vino eletto. L’uva si conserva bene nel verno, e diventa migliore.

Uve bianche.

Biancara o Pignola Vern. Sarmenti grossi, lunghi, a occhi distanti; foglie rotonde, appena lobate, e leggermente dentate; grappolo ovato, irregolare; acini tondi, fitti, di color d’oro, teneri di buccia. È coltivata nella Valle Pulicella; è fertile. Mista ad altre uve fa buon vino, ma è poco buona a mangiarsi.
Bigolona Vern. Sarmenti mediocri, foglie rotonde, appena lobate, coi lobi acuti, appena dentati, per di sotto biancastre; grappoli bislunghi; acini fitti, né grossi, né piccoli, tondi, di color oro, di buccia duretta, dolci. Coltivasi in Valle Pulicella, e può farsi con essa vino santo, mista ad altre uve. E’ fertile ma non tutti gli anni.» [2]

Il Roccolo Ditirambo di Aureliano Acanti (1754)

«Niun’altra provincia tante specie e si varie di vino produce quante ne produce la nostra.» Esordisce così l’abate Valerio Canati quando nel 1754 [3], sotto lo pseudonimo di Aureliano Acanti, quando pubblica “Il roccolo ditirambo”, la fonte forse più interessante e completa della storia dell’enologia vicentina. Il ditirambo elenca una serie di vini, accompagnati da aggettivi entusiastici, che si trovano nella provincia di Vicenza. Due vini, tra i molti, sono più diffusi: il Marzemino ed il Corbino. Il Torcolato di Breganze [4] ed il Durello (Occhio di pernice di Montorso) lo diventeranno in un futuro assai prossimo. Altre opere vicentine sono annoverate nell’ambito tecnico: il conte Antonio Pajello, nel 1774, scrive una memoria [5] sul metodo di coltivare le viti e produrre i vini, classificando i vini vicentini in asciutti, liquorosi e appassiti su arelle. Per questi ultimi, simili all’acinatico veronese, consiglia l’uso di 1/3 di uva Corvina e 1/3 di uva Marzemina. Alcuni ritengono che il vino appassito sulle arelle faccia riferimento al Recioto di Gambellara, anche se questo deve essere ottenuto dalle uve provenienti dal vitigno Garganega per almeno l’ 80% e per il rimanente da uve dei vitigni Pinot Bianco, Chardonnay e Trebbiano di Soave (nostrano) fino ad un massimo del 20%. Ma è un altro autore, Giovan Battista da San Martino, padre cappuccino dell’Ospedale Grande di Vicenza, che riporta in auge l’enologia vicentina, occupandosi, nel suo scritto diviso in tre parti, della fermentazione e degli aspetti ad essa connessi. Ancora legato all’idea di ‘flogisto’ [6], è però innovativo per almeno due aspetti: la macerazione a freddo che, bloccando la fermentazione, porta il mosto ad una  maggiore concentrazione e fornisce quella che lui chiama energia al vino; lo studio sul peso del mosto e sulle componenti zuccherine da dedurre per poterne prevedere una successiva correzione. Per Giovanni Battista da San Martino [7] è solo lo zucchero, a contatto con l’aria, l’elemento atto alla fermentazione del vino, ed è per questo che è proprio su di esso e sulle tempistiche legate al processo fermentativo che il vignaiolo può intervenire sulla realizzazione finale del vino.

Di minor spessore enologico, ma sicuramente in linea con la lunga storia dei sonetti dedicati a Dioniso, Ludovico Pastò, poeta dialettale e medico, dedica il suo ditirambo, “El vin friularo de Bagnoli’ al vino friularo, zona padovana” [8], che fa coincidere il vitigno Raboso del Piave con un biotipo autoctono: «Il Raboso era coltivato anche nel Padovano, col nome di Friularo. Con questo nome venne cantato nel ditirambo El vin friularo de Bagnoli dal poeta veneziano Ludovico Pastò, che alla fine del ‘700 esercitava la professione medica nel paese padovano: ‘Fra i vini el più stimabile / el più bon, el più perfeto / xe sto caro vin amabile / sto friularo benedeto’. Nel fervore poetico, ma forse anche seguendo una tradizione, Pastò attribuì l’introduzione di questo vino nell’Italia nordorientale nientemeno che a Giulio Cesare che lo portò a Udine, da dove venne poi diffuso a Bagnoli, dove trovò l’ambiente ideale. In realtà, l’introduzione sarebbe dovuta ai nobili Widmann e databile alla metà del XVII secolo. Anche il Friularo, allora considerato distinto dal Raboso, era considerato dai Veneziani ‘vin da viajo’, ‘vino da viaggio’, per la sua resistenza al trasporto che lo rendeva adatto all’esportazione.»

Spostandoci verso la marca Trevigiana, il ruolo più importante viene assunto dall’Accademia di Conegliano: viene istituita nel 1769 come evoluzione dell’Accademia degli Aspiranti (1603). Queste accademie sono in sostanza dei circoli culturali formati da proprietari viticoli, tecnici, studiosi ed intellettuali che si riuniscono per dibattere i comuni problemi con i massimi esperti del settore, catalogare in modo sistematico i vigneti, la loro estensione, qualità e quantità di uva prodotta. In una di queste assemblee, nel 1772, viene citato, per la prima volta dall’accademico Francesco Maria Malvolti, il Prosecco.

La Scuola Enologica Cerletti di Conegliano

Il Prosecco [9] «nasce da un’uva non autoctona perché tornando agli interventi di Del Giudice e Caronelli all’Accademia Agraria di Conegliano non si trova nominato il Prosecco tra i vecchi vitigni delle colline di Conegliano Valdobbiadene. Non ci sono per ora arrivati documenti del passaggio del Prosecco dal Carso al Conegliano Valdobbiadene, ma nel 1772 il Malvolti la considera come uno dei vini prodotti nella zona e questo fa pensare che fosse qui coltivato da diversi anni. A ricordarlo è anche il reverendo Del Giudice che lo considera uno dei migliori vitigni insieme alla Bianchetta e alla Marzemina. Fatto di importanza storica se si considera che ancora oggi la Bianchetta è coltivata tra le colline di Conegliano Valdobbiadene e rappresenta la continuazione storica che fin dal medioevo ha fatto del bianco di Conegliano Valdobbiadene uno dei più richiesti ed apprezzati. Mentre il Prosecco è diventato lo spumante Italiano più famoso, oltre che ad essere principe assoluto delle nostre colline.» [10]

Per concludere la carrellata di scrittori veneti sul vino, non si può non menzionare l’opera del veneziano Vincenzo Dandolo, chimico, farmacista, agricoltore ed enologo. Traduttore, con aggiunta di note personali, di alcuni dei testi fondamentali della chimica contemporanea, da Lavoiser, a Morveau, a Foucroy e più avanti di Berthollet, scrive testi sulla bachicoltura, sulle patate, sull’allevamento delle pecore merine, sulla necessità di creare nuove industrie nel Regno e sull’enologia. Il testo più famoso che inizialmente viene dato alle stampe come “Enologia, ovvero l’arte di fare, di conservare e far viaggiare i vini nel Regno” è del 1812 e prenderà poi il titolo definitivo, con estrapolazioni divulgative, di “Istruzioni pratiche sul modo di ben fare il vino tratte dall’Enologia del Conte Senator Dandolo e dal medesimo indirizzate ai Parochi e agli agricoltori del Regno” per la Stamperia Reale a Milano. Il testo vedrà numerose ristampe nel 1814, nel 1819, nel 1820, nel 1821 e nel 1837. Grande importanza, ed è sicuramente una delle prime opere a farlo, viene attribuita alle funzioni dei lieviti.

NOTE

[1]     Il testo di riferimento è: Giampiero Rorato, Lamberto Paronetto, Antonio Calò, Veneto. Storia regionale della vite e del vino, Accademia Italiana della Vite e del Vino e Unione Italiana Vini Editrice, Milano, 1996.

[2]     Ciro Pollini, Memorie dell’Accademia d’agricoltura, commercio ed arti di Verona Di Accademia d’agricoltura, commercio ed arti di Verona, Volume X,  Dalla società tipografica Paolo Libanti, Verona 1824, pp 143,146

[3]     Il Roccolo ditirambo di Aureliano Accanti, Acc. Olimpico Vicentino, In Venezia, 1754 Nella Stamperia Pezzana

[4]     Torcolato

« Riposata l’uva per due o tre mesi, vien pigiata ed il vino dopo 24 ore di fermentazione è posto nei fusti. Soltanto dopo 5 o 6 anni  il vero torcolato vien posto nelle bottiglie, tenute allora nel massimo onore. Con le graspe del vino torchiato si rende più amabile il vino comune, facendolo attraverso ad esse passare, l’onore, l’orgoglio di Breganze è il suo vino ‘Torcolato, quasi blasone del paese ridente’. Il modo di preparazione – così, succintamente, enunciato dal Da Schio è rimasto pressoché lo stesso nel tempo. Quando i grappoli d‘uva, prevalentemente vespaiola, ma di norma anche, in parte minore, Tocai, Garganega e, talora, Pedevenda o Durella  (e fino agli inizi del secolo anche Picolit di locale produzione) sono maturi, essi vengono oculatamente scelti e quindi appesi con degli spaghi, attorcigliati (e cioè ‘torcolati’, appunto: di qui forse il nome del vino) alle travi di soffitte asciutte e aerate (ove gli acini guasti gradualmente si staccano) o su graticci o cassettine di legno in esse collocati. Dopo qualche mese, in cui le uve sono state lasciate appassire, hanno perso buona parte del peso ed il loro succo è diventato sempre più dolce, si procede non più alla pigiatura degli ormai asciugatisi acini – col rischio di rompere il graspo e provocare un gusto amarognolo -, bensì alla loro torchiatura.
Le uve vengono cioè ‘torcolate’: ed anche questo può giustificare il nome del vino che, lasciato fermentare lentamente, invecchia – oggi – in botticelle di rovere prima di essere messo in bottiglia, dove può rimanere – cangiando nel frattempo l’intensità del suo dorato giallo colore – per qualche mese (per essere bevuto giovane e ricco del suo gusto variamente fruttato) o svariati anni (anche una decina), per essere apprezzato ancor profumato ma più maturo e pieno nel gusto (…)» Note scritte dall’Avv. Marino Breganze

[5]     Antonio Pajiello, Memoria che ha riportato il premio dalla pubblica Società d’agricoltura di Vicenza rispondendo al problema proposto l’anno 1773. Quale possa essere il miglior metodo di coltivare le viti si delle pianure, come delle colline della provincia vicentina, di vendemmiare e di fare i vini tanto alla maniera oltramontana, come de’ Greci, e d’altri esteri paesi … Del nobile signor conte Antonio Pajello socio ordinario della medesima, onorario di quella d’Udine & c, Stamperia Vendramini Mosca, Vicenza 1774.

[6]      “Denominazione data dai chimici del 18° sec. a un’ipotetica sostanza imponderabile che si sarebbe dovuta liberare nella combustione o nella calcinazione dei metalli, riconosciute come fenomeni della stessa natura. Si riteneva infatti (J.J. Becher, G.E. Stahl ecc.) che i corpi combustibili e quei metalli che per riscaldamento dell’aria si trasformano in calci (cioè si ossidano) fossero costituiti da almeno due componenti, uno dei quali, il f., eliminabile per combustione o calcinazione.” Da Treccani

[7]     Giovan Battista da San Martino, Ricerche fisiche sopra la fermentazione vinosa, Giuseppe Tofani, Firenze 1787, Antonio Giusto, Vicenza 1789.

[8]     Attualmente, con il Decreto Ministeriale del 16 agosto 1995 (G.U. n. 234 del 6/10/95) è stata riconosciuta la zona a denominazione di origine controllata ‘Bagnoli’ che comprende l’intero territorio dei comuni di: Agna, Arre, Bagnoli di Sopra, Battaglia Terme, Bovolenta, Candiana, Cartura, Conselve, Due Carrare, Monselice, Pernumia, S. Pietro Viminario, Terrassa Padovana e Tribano, tutti in provincia di Padova. Con lo stesso Decreto è stata anche riconosciuta la zona di produzione delle uve atte a produrre i vini a D.O.C. ‘Bagnoli’, designabili con la menzione ‘Classico’, che è limitata al solo territorio del comune di Bagnoli di Sopra

[9]  Questo vitigno è considerato originario delle colline triestine dove esiste una località chiamata Prosecco e un vitigno molto simile denominato Glera. Da un antico vitigno Romano detto Pucinum, coltivato in queste terre, secondo le tesi più attendibili deriverebbero il Prosecco Trevigiano e il Serprino Padovano. Esistono vari tipi di Prosecco: il Prosecco tondo, il Prosecco Balbi, e il Prosecco Lungo. Il Prosecco è un vitigno vigoroso con tralci marroni e grappoli piuttosto grandi, lunghi e alati. Il colore degli acini a maturazione è giallo dorato.

[10]  Marco Merotto, Il Prosecco, in www.tigulliovino.it