
Produzione dei profumi nella decorazione della casa dei Vettii a Pompei
La cucina aristocratica dell’antica Roma s’imperniava sull’idea di artificio, di elaborazione e di commistione dei gusti che, all’interno dello stesso piatto, trovavano adeguato spazio e reciproca soddisfazione: non era inusuale, infatti, avere, al medesimo tempo, sapori piccanti, dolci, amari, acidi e salati. Le ragioni, naturalmente, erano più d’una, ma occorre non dimenticare che l’apporto di sostanze diverse contenute nei cibi andava incontro non soltanto a dei gusti e dei piaceri di un’epoca: era, secondo le teorie dietetiche ereditate dalla medicina di Ippocrate ed elaborate successivamente da Galeno, la condizione necessaria del corpo perché ricevesse un apporto nutritivo completo e indispensabile, ad ognuno secondo le proprie condizioni fisiche, sociali, anagrafiche, temporalmente e geograficamente situate, per riequilibrare gli umori corporei.
Il vino non fu da meno. Era d’uso comune berlo “conciato”: sicuramente tagliato con parti d’acqua secondo l’uso greco e spesso con l’aggiunta di spezie, miele (mulsum), gesso, resine, frutti… Ma su questo non mi dilungherò oltre.
Altro, invece, fu l’uso del vino puro nell’antica Roma e soprattutto nella Roma arcaica: “nella medicina ha notevoli qualità e impieghi: è un antidoto contro la cicuta, il coriandolo, l’aconito, il vischio, ecc., e ancora contro il morso dei serpenti e le punture degli scorpioni, contro tutti i veleni che raffreddano; inoltre va bene per i gonfiori e i dolori gastrici, per la dissenteria, in caso di febbre e tosse (…) Il vino ha una parte importante nelle libagioni, che spesso accompagnano e propiziano un sacrificio, il misterioso rituale che consente di accedere al sacro, in cui gli uomini condividono un prodotto della terra con gli dei o con i defunti (libare: prendere una parte di qualcosa). Le bevande fermentate, in primis il vino, sono le più indicate per le libagioni, in quanto l’ebbrezza che procurano somiglia a una trasformazione magica e dà accesso a uno stato prossimo al sacro. Il vino impiegato per questo scopo, come testimoniano le fonti antiche, è il temetum, vinum merum, vino puro, la cui importanza nella società romana (in particolare arcaica) è enorme, proprio in quanto medium della relazione tra gli uomini e gli dei (da cui la donna è esclusa)[1]”.
Questo breve passaggio fa capire che, sebbene le consuetudini dei baccanali preferissero vini trattati o mischiati con l’acqua, la conoscenza dei vini puri fosse ben presente nella cultura dell’antica Roma nonostante fosse appannaggio di alcune classi sociali che lo consumavano nei momenti dedicati. Il vino, dunque, si suppone venisse giudicato nella sua essenza percettiva e sensoriale in forma pura prima che venisse passato ad interventi di rielaborazione gustativa. La domanda che torna a noi abituale, soprattutto perché portatrice di curiosità, ricade sul gusto di quei vini: cosa bevevano, insomma?
L’unico indizio che sono riuscito a trovare (ne esisteranno sicuramente altri) risale all’immensa e meravigliosa opera enciclopedica di Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) “Naturalis historia”. Il Libro XII fu il primo ad essere dedicato da Plinio al mondo vegetale a partire dalle piante e dalla loro importanza sociale: gli alberi furono, infatti, i primi strumenti del culto divino. Plinio trattò tutto il regno delle piante smisurate ed umili, dalla profumata flora alpina a quella lussureggiante dei tropici, dalla vegetazione selvaggia e nociva alla verdura servizievole degli orti e dei giardini.
Proprio
nel libro dodicesimo, al capitolo 115.1, quando Plinio affrontò la pianta del
balsamo e i suoi semi, scrisse le seguenti parole: “Semen eius vino proximum gustu, colore rufum, nec sine pingui”, ovvero
“il seme del balsamo ha un gusto molto simile a quello del vino, il colore
rossiccio ed è un po’ oleoso”. Ancora una volta il debito del presente ad una
storia antica.
[1] Irene Sandei, Il vino nella società romana (maschile): la medicina, la ‘cena’, la sfera religiosa, in “Ager Veleias”, 3.14 (2008)