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Parto dall’assunto non dimostrabile, ma abbastanza ragionevole, che ogni opera d’arte crei tanto i suoi precursori quanto i suoi successori, come disse Malraux prima di Borges e poi Genette dopo di tutti: “non si ascolta più Wagner nella stessa maniera dopo Schönberg, né Debussy dopo Boulez; né Baudelaire dopo Mallarmé, Austen dopo James, James dopo Proust”. (G. Genette, L’opera dell’arte. Immanenza e trascendenza, Clueb, Bologna 1999). Togliendo, poi, la specificazione d’arte e lasciando l’opera a se stessa senza troppi orpelli, per non invischiarmi in un dibattito sospeso (se il vino sia arte o meno), mi trovo nell’infausta condizione di dover affermare che ogni vino assaggiato durante una fiera non modifica unicamente i parametri valutativi di quelli assaggiati precedentemente ma, in maniera considerevole, crea un modello percettivo, estetico e palpabilmente consolatorio di tutti quelli che gli succederanno. Potreste dire che non è così perché, transitando di palo in frasca, da un pignoletto ad un verdicchio o da una bianchetta genovese ad una albana amorevolmente ossidata, ce ne passa e di molto. Così come le sensazioni transitano dall’amorevole attenzione e dedizione di un produttore alla più improbabile e convulsiva ressa finalizzata all’accaparramento dell’ultima derrata vinosa o, al contrario, dalla sinuosa introflessione del viticoltore sotto il banco a brandire quello che è stato e mai più sarà o quello che non è ancora e forse diventerà. Non si tratta però di sensazioni tattili messe alla prova da una capacità meticolosa di astrazione e di ricomposizione del degustatore da un banchetto all’altro, quanto della capacità intrinseca di ogni vino (e delle condizioni della sua fruizione) di permetterci di reimpiantare, a ritroso, i criteri interpretativi di quelli che lo hanno preceduto. Allo stesso modo, ogni lettura degustativa precorre quella successiva, ne condiziona la portata, la forma e nondimeno la sostanza. Si parte sempre dalla fine e non sono certo il primo a dirlo. La curiosa ed improbabile successione degli assaggi dovrebbe metter luce più aspetti di interrelazione tra frequentazioni assai diverse piuttosto che la distanza ecumenica dei filari in cui banchetti, tavoli e bicchieri sono sequenzialmente ordinati.
Prima di uscire, quando il tempo comincia a rimarcare la mancanza, proprio all’angolo estremo del cordone speronato della FIVI, mi fermo da Vada dove, per un filo di terra, un vino non può diventare un altro e non è detto che questo sia un peccato: il “Langhe nebbiolo 2017” rimane tale tra Neive e Mango, sosta in acciaio per qualche mese, non ammicca alle sostenute permanenze evolutive, ma nella sua estrema essenzialità espressiva, tesa, vibrante e sapida, fa capire che non gli manca proprio nulla per appartenere al rango di quelli oltre il confine. La stessa composizione psico-fisica che aleggia sul “Moscato 2017”: alle soffici sensazioni dolci, la fresca salinità delle pesche bianche, della salvia, della menta e delle scorze di limone graziano questo vino di piacevolissima leggiadria. Tensione per tensione vengo a quest’ultimo banco da un filotto energetico niente male: in ultimo Ancarani, in piedi, Marta Valpiani seduto con altri (si sprecano le battute) e Bele Casel, da cui parte la progressione, seduto con altri (le battute cominciano a sprecarsi) ma con la soppressa. Ancarani, non c’è che dire, prosciuga i suoi bianchi, l’albana “Sânta Lusa 2015” sopra tutti e pure il “Famoso 2017”, che è un vitigno di là come tutti gli altri ma meno celebre, di tutti gli zuccheri possibili e immaginabili. Quindi se partite con un’idea non tanto dell’albana di per sé, quanto di una sua possibile vinificazione, ebbene fatevene un’altra. Poi è chiaro che se le uve sono surmature qualcosa al miele lo devi pur concedere e malgrado ciò alla frutta sotto spirito, quella gialla, ma agli zuccheri proprio un bel niente. Chiude asciutto, che è un bel bere, pure il sangiovese “Oriolo 2016”, a prima vista affilato e sottile, ma solo se non lo si lascia transitare quel che basta per sapere quanto dura. In purezza e delicatezza precede il “Sangiovese Superiore 2016” di Marta Valpiani di cui mi sovviene, dopo le minuziose finezze floreali, ancora un volta, un’impronta marina fortemente iodata. E solo scioccamente si potrebbe pensare che quello che è accaduto fino a quel moneto sia così distante, solo perché si tratta di Prosecco e per di più col fondo, da quello che accade di lì a poco con la Romagna in fiore. Perché, se c’è da dire una cosa tra le tante sinora dette in tanti luoghi diversi, è che nel “Prosecco Colfóndo 2015” di Bele Casel la crosta di pane e il ritorno fresco e amaro del vino si arrampicano, quasi come farebbe Luca Ferraro con la sua bici, sopra piccole montagne di cristalli di sale. E sono note queste che mi piacciono più di altre soprattutto quando la canicola estiva allunga il suo sguardo irridente sulle nostre teste accaldate. E dire che vengo da un padiglione agli antipodi e, più precisamente, da un produttore che non ho mai avuto modo di gustare (come i più nel mondo conosciuto): Putzenhof. Il nome rimanda alla più antica delle doc locali, poco sopra Bolzano. Dovrei dire bene di tutti, ma per essere equo parlo meglio di alcuni: il “kerner Valle Isarco 2017”. La rampicata sulle colline della mineralità (potete trovare il sinonimo che vi piace di più) è fatta da fiori bianchi, mele di diversi colori, acidità e croccantezze, pere in ordine sparso, pompelmo e una virata esotica sul mango che la butta un po’ sulla festa da ballo latino-americana. Accennavo alla primissima doc locale, colli di Bolzano: “Putzenhof Bozner Leiten 2017”: qui abbiamo un vino che tiene dentro un’idea vasta di territorio che parte dal lago e s’inerpica su per dossi, colli e alture. Schiava, lagrein e pinot nero: il primo più di tutti. E l’ultimo meno degli altri due sia individualmente che come somma (la soluzione è a pagina 10). E’ presumibile che anche qui, storicamente, non si realizzassero solo vini da monovitigno, come è dato conoscere oggi, ma tagli di equilibrio e grande piacevolezza di piccoli e teneri frutti di bosco.
Tutto questo arriva dopo una lunga sosta nelle terre di Montalcino: seduti sia a San Lorenzo che alla Fattoria dei Barbi poco prima, che sembra un piccolo summit annuale a base di brunello e salsiccia. Di San Lorenzo riporto una cosa, che a suo tempo scrisse Emanuele Giannone: sono così d’accordo ed è scritta talmente bene che non avrebbe avuto alcun senso rielaborare un mio pensiero a posteriori. “Bramante Riserva 2006”: “Let Love Rule. Un vino perfetto. Fa a meno di analisi, punteggi, aulismi, aulenti note etc. Chiede semplicemente di uscire e bere e far notte e godere e alla fine di prendersi sul serio. Perché non è facile: è bello e vivo, scoppia di vita e di voglie. Travolgente per bontà, ha beva definita dal campo di variazione tra affetto e voluttà. A ragione e sentimento, uno dei vini più immediatamente, istintivamente buoni bevuti negli ultimi tempi”. (Intravino)
“Vigna del Fiore 2007” della Fattoria dei Barbi vince, per unanimità di giuria che coincide con me stesso, il palmarès del summit: si schiude letterariamente nel bicchiere con notevole vigore e ricchezza: terroso e salato imprime sino al medio palato ciliegie durone tendenti al nero, prugne, mirtilli, per poi voltare sulla liquirizia, il cuoio e il cioccolato fondente. I tannini hanno una trama molto fitta, densa e in perfetta armonia con le densità del colore e della struttura del vino.
Può capitare che a richiamare struttura, larghezza e preponderanza siano i suoi opposti relativi e non assoluti: mi avvicino a Montalcino da due postazioni, una piemontese e una ligure di segno alquanto diverso. Impatto in quella piemontese casualmente dopo la Liguria cercata. Il Barbera d’Asti doc Superiore “La Cappelletta 2015” della Cascina Barisel racconta di una barbera che t’aspetti: pensi ad Asti e agli asini, alla bagna caòda, al fritto misto, a Paolo Conte, al vino, a quello superiore, insomma a questo. Su tutto: una vena acida bella dritta, viva, che non concede sconti al frutto gioviale, maturo, rosso scuro che è pur ben presente. “L’avija”, da uve moscato surmaturate: ualà (voilà) come direbbero diversi amici di quelle parti.
Non vorrei essere troppo di parte, ma alcuni liguri di Ponente ululano alla luna. Perciò parto da Levante, dalla Località Tolceto – Comune di Ne, dall’ultimo assaggiato un po’ per caso un po’ per fortuna, Il “Bianco 2017” dell’azienda agricola Ricolla, prodotto dalle fecce del vermentino e della bianchetta. Daniele Parma racconta che lo fa perché lo si faceva nei tempi in cui non si buttava via nulla e in Liguria più che da altre parti (e tutti sappiamo il perché). Un vino di quelli che o la va o la spacca. E questo “la va” benissimo: una vera sorpresa perché è come se tenesse insieme, nella loro forma migliore, esuberante e anche questa volta salina, ma senza mai sbrodolare che “maniman”, la bianchetta e il vermentino, lasciando però che si aprano succosamente al palato. Dicevo poc’anzi dei vini che ululano alla luna: tre rossese di Dolceacqua solo perché devo scegliere. Mica posso scrivere una guida. Così inizia la mattinata dell’ultimo giorno: Il Rossese di Dolceacqua Superiore “Posaù 2016” di Maccario Dringenberg; il “Bricco Arcagna 2016” di Terre Bianche e, per concludere, il rossese “Galeae 2016” di Ka*Manciné.
Così entro al Vinitaly, quel martedì 17 aprile 2018, subito prima della pioggia che incontrerò, la sera stessa, nella Genova dei vicoli inumiditi e fumanti.
Francamente ascolto Beethoven allo stesso modo dopo Schömberg, così come come vedo allo stesso modo la scuola di Atene dopo Fontana. Solo, avendo esaminato molto attentamente e ripetutamente sia Schoenberg che Fontana, ma davvero molto attentamente, continuano a non dirmi nulla; magari sono ignorante, ma magari il re è nudo. E qualcosa di simile (sempre per me, e ben vengano altri gusti) lo direi per il vino, l’assaggio di nuovi ma difettati vini orange non mi aggiunge nuove percezioni a quelle che provo da tempo nel sorseggiare i vini dell’amico Ciolfi. Non sempre il futuro passa dalla rottura degli schemi, è vero che ogni tradizione all’inizio era un’innovazione ma anche un’innovazione può essere più un’evoluzione armonica con le sue radici che uno scarafone.
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