Ciò che mi accingo a realizzare è un’analisi dell’ultimo spot televisivo del Tavernello: farò, a tal proposito, dei riferimenti specifici ad alcune teorie semiologiche, storiche e filosofiche il cui esito finale non può che essere politico. Mi preme aggiungere che questo livello di valutazione non presuppone in alcun modo un giudizio moralistico nei confronti dello spot in questione né, tanto meno, un parere estetico che lascio volentieri al gusto di ognuno. La regia e la fotografia dello spot sono opera del fotoreporter Fabio Bucciarelli (già vincitore del Robert Capa World Medal) e del fotografo Stefano Morcaldo, mentre la campagna è stata ideata da Lorenzo Marini Group.
Lo spot si presenta come una successione di fotografie in movimento: non vi è soltanto un passaggio da una foto all’altra in maniera sequenziale, ma ogni singola foto viene raccontata con un focus differente. L’obiettivo si allarga e si restringe all’interno dello stesso spettro visivo provocando così un effetto di estensione dello sguardo all’intero scenario occupato dalla fotografia. Ciò che si vuole ottenere è l’effetto volontario e soggettivo della percezione: non sono i pubblicitari a proporci una veduta complessiva e in dettaglio delle singole fotografie, ma siamo noi che, in modo apparentemente spontaneo, come se fossimo presenti all’immagine stessa, spostiamo gli occhi per allargarne la veduta o per precisare un particolare. Il primo effetto, dunque, è di ribaltamento: esso comprende la partecipazione diretta, ancorché fittizia, del fruitore dello spot al paesaggio rappresentato.
A metà dello spot (29 secondi) incrociamo gli occhi e il viso rugoso di un contadino: lo scambio degli sguardi è intenso, profondo, impenetrabile. Il principio è il medesimo: annullare la distanza tra il soggetto fotografato e i suoi osservatori. La fotografia diviene così l’analogon, secondo la definizione di Roland Barthes, del reale: essa scompare per mostrare l’oggetto che raffigura, il quale a sua volta conquista la piena e totale visibilità. (Rolad Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985 e La camera chiara, Einaudi, Torino 1980).
Solo apparentemente ci troviamo di fronte al potere mitico della pura denotazione della fotografia (il rapporto tra la parola e l’oggetto che vuole esprimere) in cui l’immagine non rappresenterebbe null’altro se non il primo significato comunicato: le vigne, i contadini, la cantina, la vendemmia… In realtà “un discorso fotografico è un sistema all’interno del quale la cultura orienta le fotografie verso diverse funzioni rappresentative”. (Allan Sekula, On the invention of Photographic meaning, New York 1975). La denotazione non è il primo significato, ma finge di esserlo: sotto questa illusione, in definitiva, è solo il mito superiore con cui il testo pretende di tornare alla natura del linguaggio, alla lingua come ‘natura’. I miti servono alla funzione ideologica di naturalizzare i valori, gli atteggiamenti e le credenze culturali e storiche dominanti. In altre parole i miti lavorano per fare sembrare i suddetti principi del tutto naturali, normali, evidenti, senza tempo, e quindi riflessioni oggettive ed attendibili sul modo in cui le cose sono. Il primo ordine (o livello) di significatività (denotativo) è visto come narrazione del reale: il rapporto tra la parola e l’oggetto designato. Nomina sunt consequentia rerum secondo l’adagio dantesco (Vita Nuova XIII, 4). Il secondo ordine di significatività (connotativo) riflette i valori “espressivi” che si attaccano a un segno. Nel terzo ordine di significazione (mitologico) il segno riflette i principali concetti culturalmente variabili alla base di una particolare visione del mondo (ideologia).
Anche nella storia dell’arte, la famosa scuola di Warburg – che includeva Aby Warburg (1866–1929), Fritz Saxl (1890–1948), Erwin Panofsky (1892–1968), Edgar Wind (1900–1971) ed Ernst Cassirer (1874–1975) – lavorò su un nuovo approccio alle immagini, la cui summa fu il libro di Panofsky pubblicato nel 1939 (Studies on iconology) in cui si distinguevano tre livelli di interpretazione corrispondenti a tre livelli di significato nell’opera stessa. Il primo di questi livelli era la descrizione preiconografica, che riguardava il “significato naturale” e consisteva nell’identificazione di oggetti (come alberi, edifici, animali e persone) e di eventi (pasti, battaglie, processioni e così via). Il secondo livello era l’analisi iconografica in senso stretto, che riguardava il “significato convenzionale” (riconoscere una cena come l’Ultima Cena o una battaglia come la Battaglia di Waterloo). Il terzo ed ultimo livello fu quello dell’interpretazione iconologica, che si distingue dall’iconografia perché si occupa di “significato intrinseco”, cioè di “quei principi di fondo che rivelano l’atteggiamento di base di una nazione, di un periodo, di una classe, di una persuasione religiosa o filosofica”. (Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002).
Dunque quelle immagini sono il volto di più significati il cui senso primo, auto-evidente appunto, naturalizza il senso politico, ideologico, filosofico e culturale delle stesse: i volti maschili, a cui viene affidato il senso storico, la rappresentazione della vitivinicoltura verace, gli sguardi intensi e quelli lontani, la forza delle braccia e delle spalle, l’uso sapiente di attrezzi antichi, la tradizione che si rinnova, la generosità e l’orgoglio sono personificati, ma non poteva che essere così, da anziani e da mani intrise di terra e di fatica che tagliano il pane o che sorreggono fiere un bicchiere di vino distante anche nella forma, come i solchi dei loro visi, dalle modernità degustative odierne. Unica eccezione concessa, e in misura parzialmente discordante, è l’uomo della cantina di cui si percepiscono (32 secondi) i tratti di profilo in ombra. La freschezza, al contrario, la bevibilità e l’affettività del vino sono femminili, giovani, ma nel contempo sono fatte di serietà, di sguardi severi e di impegno. Nulla, ci redarguisce la voce narrante come fosse una calda didascalia vocale, è facile: la semplicità che noi, semplici semplificatori del lavoro altrui, presupponiamo è fatta di duro lavoro, di attese, di fatica: tutta la rappresentazione scenica non concede alcuno spazio all’industrializzazione e alla meccanizzazione del lavoro in vigna e in cantina. Anche la pettinatura delle vigne rimanda ad una graziosa acconciatura senza tempo. Ogni parte tiene legate a sé le altre e la forma narrativa si rivolge al bianco e al nero come condizione primigenia del racconto del vero: “Le foto in bianco e nero sono la magia del pensiero teorico, poiché trasformano il discorso teorico lineare in superfici. In questo risiede la loro particolare bellezza, che è la bellezza dell’universo concettuale. Molti fotografi preferiscono le foto in bianco e nero a quelle a colori, perché in esse si manifesta più chiaramente il significato proprio della fotografia, ovvero il mondo dei concetti. Le foto in bianco e nero sono più concrete e, in questo senso, più vere; esse rivelano la loro origine teorica in modo più chiaro; e viceversa, più i colori diventano “autentici”, più sono menzogneri, e più dissimulano la loro origine teorica.” (Vilém Flusser, Filosofia della fotografia, Bruni Mondadori, Milano 2006).
Poi, spezzando il flusso del racconto (41 secondi), quasi a voler riportare il pubblico sul piano della realtà non mitica e non mitizzata, irrompe il colore di un vino rosso rubino come il sangue della terra, dice la voce narrante, versato questa volta in un calice che ammicca alla contemporaneità. Ma solo per un attimo l’interferenza colorata, che rende conto al pubblico ciò di cui la voce asseconda con le parole, ci rimanda indietro al racconto di verità fatto di tenerezza, di forza e di amore. Infine lo spot chiude nuovamente con il colore e con un brik che, nella sua stentorea propensione rettangolare e tridimensionale, incarnando le geografie architettoniche dei grattacieli della vitivinicoltura industriale, sembra poggiare le sue salde fondamenta nelle botti di un tempo e nel racconto sin lì condotto: “Investimento affettivo, gradi di intensità, stile tensivo, dispositivo modale sono, insieme al tempo, all’aspetto e al ritmo le componenti attraverso cui analizzare la passione pubblicitaria, che si può presentare come passione enunciata, quando mette in scena il costruirsi, il trasformarsi e il manifestarsi di una specifica emozione o passione, ma anche come discorso appassionato, quando la passione non è contenuto di un enunciato ma forma dell’enunciazione, in quanto proiezione di simulacri”. (Cinzia Bianchi, SPOT. Analisi semiotica dell’audiovisivo pubblicitario, Carocci, Roma 2005).
Ora, per chiudere, sarebbe interessante comprendere le ragioni di questa pubblicità rispetto ad una società, la Caviro, che in qualità di numeri e di fatturato non è seconda a nessuno. Gode, infatti, di un fatturato di 306 milioni di euro (dati 2016) che coinvolge, come avete sentito dalla voce narrante, 13.000 persone in 30 cantine distribuite in tutta l’Italia: “Il Gruppo, leader nella GDO con i vini Tavernello, ha conseguito nel 2016 un valore aggiunto di 43 milioni di euro. L’Ebitda (Margine Operativo Lordo) registrato nel 2016 è stato di 17 milioni di euro al netto della liquidazione straordinaria del vino dei soci, che rappresenta il 90% del totale. Il risultato di esercizio è di 1,3 milioni di euro, prosegue il rafforzamento patrimoniale con i mezzi propri del Gruppo che raggiungono quota 91 milioni di euro mentre la Posizione Finanziaria Netta è di 56 milioni di euro”. Una delle ragioni è sicuramente quella legata alla diminuzione del consumo del vino in Italia dove “il prodotto di punta, il Tavernello, soffre un po’ per lo spostamento dei consumi nelle fasce premium del mercato, pur restando il vino in assoluto più venduto”. (Fonte: I numeri del vino).
Il Tavernello, come molti altri prodotti Caviro, ha trovato nuova forza e propulsione dalle esportazioni anche se la questione dazi (Russia e in futuro Inghilterra) rende incerta la promozione su alcuni mercati esteri. Di qui la necessità di rinsaldare il legame patrio e nulla di meglio che farlo attraverso il tentativo di ricostruire un modello identitario ancorato a propositi rurali, tradizionali e con forti immagini che rimandano ad un senso comune largamente condiviso di emblemi più o meno stereotipati di modelli agricoli del passato. Alcune contraddizioni sono evidenti e non riguardano solo le forme e i contenuti del messaggio pubblicitario. Ma non è detto che, per la stessa ragione, non funzioni.
La mitizzazione degli eventi porta alla destoricizzazione degli stessi probabilmente con l’obiettivo di riposizionare un prodotto (dimenticando momentaneamente il proprio passato) che, soprattutto negli ultimi anni, soffre lo spostamento dei valori che ad esso si attribuivano (alimento tradizionale, storia e cultura dei vari popoli non solo italiani ma mondiali, ecc), verso una nuova concezione maggiormente edonica. Cercare di mitizzare il proprio lavoro può portare alla benevolenza dei propri associati, ma credo che non enfatizzare la tecnologia (non vista come fattore “anti-natura” ma come garanzia di sicurezza alimentare) sia una piccola mancanza nei confronti dei pochi consumatori attenti a questi aspetti. Ovviamente non conoscendo gli obiettivi precisi della campagna pubblicitaria, tutto viene valutato per come viene mostrato nel momento in cui lo si osserva e questo cambia di molto la prospettiva, non solo grafica e creativa, ma anche soggettiva.
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L’ha ribloggato su Consulenza enologicae ha commentato:
Pubblicità mitizzanti
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